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Psicopatologia

La fagocitosi del negativo:
il lavoro clinico per un’immunità psicologica

“Nell’annata 1898 della «Rivista di Psichiatria e Neurologia» ho pubblicato col titolo «Del meccanismo psichico del dimenticare», un piccolo saggio del quale farò qui il riassunto, e che prenderò come spunto per considerazioni ulteriori”, così recita l’incipit del primo volume di Psicopatologia della vita quotidiana, una tra le opere ancora oggi maggiormente riconosciute all’interno della vasta produzione teorica del padre della psicoanalisi Sigmund Freud.
La psicoanalisi dal giorno in cui è nata ha dovuto costantemente aggiornarsi rispetto alla società in cui veniva incastonata e anche questa volta non si smentisce: dalle pagine scritte a mano dalla stilografica dell’austriaco più famoso dell’epoca, si trasforma in rubrica digitalizzata all’interno di un sito internet.
“Psicopatologia della vita quotidiana – Vol. 2” è una rubrica bimestrale in cui diversi esperti del settore scriveranno insieme a noi su diversi temi che interessano la vita di tutti i giorni parlando con linguaggio anche divulgativo di tematiche psicologicamente orientate.

Qui sotto “La fagocitosi del negativo: il lavoro clinico per un’immunità psicologica“, la prima riflessione di Matteo Romiti e Silvia Valadè. 

La fagocitosi del negativo: il lavoro clinico per un’immunità psicologica

La medicina ci consegna due tipologie di immunità: innata e acquisita.
La prima è composta da cellule che non hanno memoria, non ricordano e non sanno fornire una risposta più adeguata della prima volta di fronte all’eventuale ripresentarsi di una stessa infezione. Queste cellule, diverse tra loro, condividono la capacità di identificare ed eliminare gli agenti patogeni. L’immunità innata è guidata da meccanismi preesistenti al contatto con i microrganismi, una vera e propria prima linea difensiva depositata al nostro interno.
La seconda rappresenta invece un sistema strutturato sull’esperienza cellulare. La memoria esercita ora un ruolo cruciale, ciò che è stato incontrato può essere riconosciuto generando meccanismi difensivi che sanno sovrapporsi a quelli caratteristici dell’immunità innata. Un’integrazione in grado di accrescere la risposta adattiva.
Processi di resilienza che si svolgono dentro di noi, al di fuori di un controllo consapevole, dove il silente lavorio del corpo fornisce armi protettive a nostro vantaggio.
La formazione clinica e l’attività lavorativa che svolgiamo ci interrogano su tali processi anche da un punto di vista psicologico, alla ricerca di un corrispettivo, di un fronte difensivo psichico che possa integrare il lavoro strutturale che il nostro corpo compie.
Richard Lazarus, in un libro pubblicato negli anni sessanta, offre una definizione rapida ed efficace dello stress, definendolo come una particolare relazione tra la persona e l’ambiente che è valutata dalla persona stessa come onerosa o eccedente le sue risorse e che mette a rischio la sua salute (“Richard Lazarus defined stress as a particular relationship between the person and environment that is appraised by the person as taxing or exceeding his or her resources and endangering his or her wellbeing”).
Come la nostra attività clinica e le esperienze personali ci permettono di osservare, lo stress in quanto tale può non avere una caratterizzazione necessariamente negativa. Ciò che stabilisce la differenza è in quale misura, in quale particolare momento di vita, in che condizioni sociali si presenta. Qual è quindi la struttura dello stress e come essa si intreccia alla persona.
Lo stress dannoso risulta più facilmente identificabile e ognuno di noi ne possiede immediate rappresentazioni, personali e legate al lavoro con i pazienti.
Lo stress che può avere risvolti benefici necessita di uno sforzo maggiore. Elaborare al negativo è un processo più facile, riconoscere invece le opportunità conseguenti a una trasformazione positiva, di una pressione negativa, richiede un’attivazione consapevole.
La situazione storica e sociale che stiamo attraversando ha aperto un fronte negativo che sembra lasciare scarsi spazi di manovra. Alcune persone si ammalano e tra queste alcune muoiono. Le città si spengono in modi più o meno parziali, i contatti sociali subiscono limitazioni che non avevamo mai sperimentato.
Questa situazione stressante può avere risvolti benefici?
La domanda sembra retorica, soprattutto se posta a persone che sono entrate in contatto diretto o appena laterale con il virus. Gravi conseguenze sulla propria salute, perdita degli affetti, tracolli lavorativi sono le prime cose che vengono in mente. Queste persone sono attese da un compito elaborativo ancora più complesso. Molte altre, la maggioranza, si confrontano invece con una situazione stressogena composta da elementi nuovi come il sospetto, l’interruzione dei rapporti, la difficoltà a immaginare una linea dell’orizzonte stabile.
Quale argine può porre la psicoterapia a tali minacce?
Nelle nostre stanze di analisi così come in altre stanze senza una caratterizzazione precisa, a volte nemmeno fisica, le persone si trovano e parlano. Parlano di quando e di come tutto questo finirà. L’elemento risolutore viene spesso identificato fuori da sé. Il vaccino, una nuova formula in grado di potenziare le nostre preziose immunità, in modo decisivo.
Tuttavia questa soluzione appare ancora incerta e, tra noi e lei, in uno spazio che rischia di essere caratterizzato dalla sospensione che le attese più grandi generano, si fa strada la possibilità di un ripiegamento depressivo, di un’assenza di prospettive, di un diradamento delle relazioni. Di una rarefazione di quella relazionalità fisica e rassicurante alla quale molti di noi sono abituati. Lo sforzo di rimanere in dialogo e in contatto rimane fondamentale, poiché se da un lato l’isolamento fisico è già in atto e in parte imposto, dall’altro quello mentale può avanzare in modo meno evidente e silenzioso.
Nella solitudine i nostri pensieri prolificano, ma in assenza di dialogo e interlocuzione rischiano, soprattutto nei momenti di fatica, di perdere lucidità.
Così come durante l’insonnia ogni ombra e ogni rumore potrebbero essere fonte di pericolo, in uno stato d’isolamento mentale potremmo essere sconfitti da pensieri complessi in assenza di contradditorio o di una possibile narrazione differente. Anche in questo caso la condivisione, pur della fatica, del dolore e della stanchezza, potrà essere fondamentale.
La psicoterapia ci aiuta nell’affrontare questo passaggio dalla normalità ad uno stato prima impensabile, al costo di uno stretto rapporto con le angosce che questo stato può evocare.
Continuando ad accoglierci in uno spazio intimo ma sufficientemente distante, che ci permetta di rimanere in dialogo con i nostri pensieri e di costruire qualcosa di personale in questo presente, che rischia di essere infettato dall’attesa, rigida, della fine dell’emergenza.
Lavorare così sulle risorse che noi stessi sentiamo di avere, e che i nostri pazienti possiedono, può essere una buona strada per anticipare gli anticorpi in arrivo dai laboratori. Ognuno secondo le proprie possibilità è chiamato a lottare contro le privazioni imposte dal virus, generando la terza forma di immunità imprescindibile, che è mentale e si fonda sulla produzione endogena di anticorpi, in una logica contrapposta alla passività di certe attese.
In questo sta il processo di fagocitosi del negativo, un processo che la psicoterapia può perseguire come forma di protezione e prevenzione, e che ha alla base un’intenzione. Poiché non si tratta di fuggire da questo nuovo materiale estraneo, ma, come la radice della parola e come il funzionamento cellulare indicano, di accoglierne piuttosto le porzioni potenzialmente dannose disattivandone la carica ostile.

Dott. Matteo Romiti
Dott.ssa Silvia Valadè