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Lunedì per leggere
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Lock Mind: due diari della pandemia

Non giudicare il libro dalla copertina
(o dal numero di pagine, o dall'editore, o dall'autore)

Titolo del libro: Lock Mind: due diari della pandemia
Autore: Angelo Antonio Moroni e Pietro Roberto Goisis
Anno di pubblicazione: 2022
Editore: Enrico Damiani Editore e Associati
Pagine: 272

Cosa leggiamo?

Fare esperienza dell’inconscio” significa saper
sostare in un’assenza fondativa, in un vuoto di certezze,
in un sentirsi confusi e attraversati da un’alterità
che non sentiamo nostra, ma che lo è.

  

“Quando il corpo ha iniziato a darmi segnali di miglioramento,
non è stato difficile per la mente seguirlo e assecondarlo, e viceversa.
Da sempre ci chiediamo se “nasca prima l’uovo o la gallina”.  
Una domanda che merita una risposta – propendo per l’uovo –,
ma che contemporaneamente ci parla di una circolarità
e reciprocità indissolubile tra due poli. Da ricordare, sempre.”

Due psicoanalisti scrivono e si raccontano. Lo fanno in modo intimo, personale, voyeuristico. Il primo, come modo per attraversare la pandemia; il secondo, per sopravviverle.

La sequenza dei due racconti permette al dottor Moroni di cullarci nella ritmicità delle giornate stravolte dalla pandemia ma che riconquistano nonostante tutto orari routine. Il corpo dolorante davanti allo schermo per diverse ore al giorno, la mente impegnata con i pazienti e con le preoccupazioni che almeno in parte accomunano a loro.

Le stagioni – almeno due – che passano e la natura che si rianima. La malattia intorno a noi che stringe il cerchio, il saluto definitivo ad alcuni colleghi, la preoccupazione per altri ed infine la necessità di ritrovarsi e confrontarsi anche a distanza e dimenticandosi di essa. La condivisione con il gruppo attraverso lo schermo piano piano diventa condivisione e basta, lo schermo si dimentica per necessità mostrandoci anche le sue virtù. Le madri, le insegnanti, i medici e gli adolescenti, insomma i pazienti che le incombenze famigliari, i passatempi, i colleghi, la vita che si ricompone attorno alle restrizioni e ai dispositivi sanitari.

La psicoanalisi o meglio un tipo di psicoanalisi che velocemente si riarma e si riposiziona dietro allo schermo interrogandosi su transfert, controtransfert, interpretazioni anche di setting, sogni, self-disclosure, e si riscopre possibile anche confinata dietro ad uno schermo più o meno grande.

Stefano Bolognini, già presidente dell’International Psychoanalytical Association (IPA), in un webinar sul Covid-19 organizzato dall’IPA per riflettere, nei giorni più drammatici del contagio, sui traumatici cambiamenti in atto, descrive metaforicamente lo stato emotivo di paziente e analista come l’essere stati costretti a trasferirsi in una tenda da campo, dopo un terremoto che ha distrutto le nostre case, in attesa che le forze dell’ordine ci riportino ad abitare i nostri luoghi familiari.

Ed ecco quanto il primo Lockmind, generosamente, ci propone.

Lasciate le riflessioni sulla teoria a contatto con il virus, la malattia e le limitazioni, il secondo diario ci impone di rimanere a contatto con il virus stesso.

Il racconto ci accompagna attraverso i primi sintomi (e la loro negazione, perché sì anche gli psicoanalisti si difendono), l’aggravamento, il primo accesso in ospedale e le auto dimissioni (vedi sopra…) e l’inevitabile ricovero.

La cura terribile, l’isolamento, il terrore negli occhi dei curanti nonostante le rassicurazioni. E soprattutto la paura, quella di chi scrive e quella di chi legge, poiché nonostante la consapevolezza di un finale che è inevitabile, l’angoscia ci pervade.

A distanza di qualche tempo dopo la prima lettura del testo, s’intravede anche una similitudine che prima non era chiara: la ferocia del virus che si abbatte sul corpo ottunde la mente e quando non lo fa la lascia intrappolata in pensieri mortiferi proprio come la ferocia del malessere psichico.

I pazienti soprattutto i più gravi, ma forse non solo loro, sono spesso intrappolati dai loro stessi pensieri, in preda di angosce senza nome, con in testa rumori e parole di ogni tipo, e i loro curanti sono fuori da loro, preoccupati per loro, ma fuori.

Danno conforto, provano cure, fanno sentire la loro presenza, li aspettano, li incoraggiano, li attendono, a loro in qualche modo si affezionano benché una volta dimessi solo raramente avranno loro notizie nel bene e nel male.

La generosità delle pagine e delle parole del secondo diario lasciano attoniti… ma la psicoanalisi non doveva essere astinenza e distanza? No.

I due diari hanno in comune una riflessione su quanto l’irruzione dell’epidemia abbia finalmente obbligato gli psicoanalisti italiani a riconsiderare i temi dell’“asimmetria” e della “neutralità” analitiche. Due punti di vista differenti, ma complementari.

Tre parole che rimangono

Trauma“Nei mesi successivi al ricovero ho avuto la percezione di avere qualche esito emotivo sgradevole (..). Mi sono scoperto molto insofferente, magari quando qualcuno diceva o faceva qualcosa di non gradito oppure se mi sentivo contraddetto.  Più del solito (..). Rendersene conto è stato il primo passo, accettare le segnalazioni altrui un altro. Occuparsene sarà ora il passo successivo e definitivo.”

Affidarsi“La cura è stata in primo luogo affidarmi. Affidarsi significa fidarsi. Poi è stata il bisogno di stabilire relazioni umane con tutte le persone che incontravo, a partire dal lettighiere in ambulanza (…). Questo bisogno continuato anche in reparto, quando mi hanno messo in una stanza isolata, dove però non ho più provato il sentimento di essere sporco.”

Corpo“Cominciare a sentire che, prima ancora che della mia mente o dei miei desideri, o dei miei sogni, dovevo occuparmi attivamente degli organi e delle membra di cui ero fatto, cercare di mantenerli sani, prendermene cura. Piccole cose, di nuovo i dettagli, come cambiare una maglietta, indossarne una significativa, mettersi un pigiama nuovo, riprendere a gustare il cibo, anche quello dell’ospedale o quello di qualche fornitura speciale ricevuta da casa.”

Non ci resta che...

Riorganizzare un contenitore terapeutico deformato dalla cruda e aggressiva realtà del virus. Rifletto molto sul setting analitico classico disegnato da Freud e su come si stia trasformando e allontanando dal modello originario. Il setting, infatti, è un intreccio tra “sito analitico” (studio dell’analista, percorso che il paziente fa per arrivarci, orario, luogo fisico del lettino) e “situazione analizzante” (processo analitico in sé, dialettica transfert/controtransfert, ruolo del corpo, del non verbale in seduta, enactment e così via). Dove va a finire tutto questo, mi chiedo, su Skype?
E cosa comporta il fatto che vedo la casa del paziente attraverso la webcam? Si tratta di una situazione davvero inedita che però forse ci fa capire meglio cosa vuol dire “inconscio”.

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