Recensione di "La strada" di Cormac McCarthy dalla penna della dott.ssa Pamela D'Angelo
Non giudicare il libro dalla copertina
(o dal numero di pagine, o dall'editore, o dall'autore)
Titolo del libro: La strada
Autrice: Cormac McCarthy
Anno di pubblicazione: 2006
Editore: Einaudi Editore
Pagine: 218
Cosa leggiamo?
“Tutto bene?, chiese l’uomo. Il bambino annuì. Poi si incamminarono
sull’asfalto in una luce di piombo, strusciando i piedi nella cenere,
l’uno il mondo intero dell’altro.”
Questa è la storia di un padre e di un figlio senza nome che vagano per le macerie di un mondo post-apocalittico, o almeno di quel che ne resta. Li seguiamo da vicino, mentre con pazienza spingono il carrello azzoppato e carico dei pochi viveri con cui tentano di sopravvivere.
“Uscì fuori nella luce livida, rimase lì in piedi e per un attimo vide l’assoluta verità del mondo. Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento. L’oscurità implacabile. I cani del sole nella loro corsa cieca. Il vuoto nero e schiacciante dell’universo. E da qualche parte due animali braccati che tremavano come volpacchiotti nella tana. Un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli.”
McCarthy lascia il lettore all’oscuro di tutto: le immagini che ci regala sono cupe, sfuocate, buie; non comunica da dove provengano i personaggi, cosa abbiano dovuto affrontare, quale evento o fenomeno abbia ridotto la Terra ad una distesa desolata o perché gli uomini siano stati sterminati e quelli sopravvissuti siano in guerra tra loro. Ma, in fondo, niente di tutto questo è importante perché l’unica cosa che conta è la lacerante attenzione che viene posta al legame tra padre e figlio.
“Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a sé stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te.”
Nonostante l’uso di una scrittura asciutta e diretta, l’autore seleziona con cura le parole, le centellina, e le usa con estrema maestria costruendo intorno al lettore la strada che padre e figlio percorrono. E così, il lettore non può non empatizzare dal primo istante con i protagonisti di questa storia: si interroga, si commuove e spera. Spera che padre e figlio possano riuscire a mettersi in salvo, a raggiungere il mare e sopravvivere all’aridità del mondo intorno a loro. Anche quando le cose sembrano mettersi davvero male, il lettore non può e non vuole credere che i due si separeranno, perché McCarthy riesce a trasmettere in modo così chiaro e struggente il calore di un legame che mai si potrebbe immaginare spezzato.
La strada” un romanzo che lascia attoniti: il dolore, la fatica, lo smarrimento e la disperazione dei protagonisti diventano quelli del lettore, che proprio quando sta per perdere la speranza viene rassicurato dalla forza del padre e dalla fiducia che in lui ripone il figlio. Un complicato ma semplice gioco di immedesimazione che consente di empatizzare tanto con il primo quanto con il secondo.
Un libro sicuramente carico di pathos e – per alcuni forse troppo – malinconico che riesce però ad illuminare sulla natura dell’umanità e della necessità di riscoprire e affidarsi ai legami, quando tutto intorno viene strappato via.
“Papà, siamo ancora noi i buoni?”
Tre parole che rimangono
Riscoperta: il groviglio di strade senza origine e senza meta su cui viaggiano i protagonisti per attraversare la desolazione di un mondo che non fa altro che tentare di scalfirli ci fa riscoprire i piccoli piaceri che la vita sa regalarci nei momenti più inaspettati.
“Guardò il bambino. Era seduto in silenzio sulla brandina, ancora avvolto nella coperta, e osservava la scena. L’uomo pensò che probabilmente non ci credeva ancora del tutto. Da un momento all’altro si sarebbero potuti risvegliare nel bosco buio e umido. Queste saranno le pere migliori che tu abbia mai assaggiato, disse. Le migliori. Adesso sentirai.”
Fatica: il viaggio è costellato di infinite sfortune che padre e figlio riescono per lo più a superare o, quantomeno, affrontare. Solo di rado, il padre si concede di essere debole, di confrontarsi con la fatica del viaggio e di ammettere a sé stesso e al lettore, con disarmante onestà, che porre fine a tutto potrebbe essere più semplice.
“Non poteva ricostruire il mondo perduto per compiacerlo senza trasmettergli anche il dolore della perdita, e pensò che forse il bambino lo sapeva meglio di lui. (…) Forse quelle creature erano venute a metterlo in guardia. Su cosa? Sul fatto che non poteva riaccendere nel cuore del bambino ciò che era ormai cenere nel suo. Anche ora, una parte di lui rimpiangeva di aver trovato quel rifugio. Una parte di lui continuava a desiderare la fine.”
Fuoco: in questo mondo di desolazione e distruzione, ciò che non si spegne mai è il fuoco che porta questo bambino e il calore di suo padre che lo protegge, dalle intemperie del mondo superstite, con un amore che brucia implacabile come solo quello tra genitori e figli.
“Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.”
Non ci resta che...
Percorrere l’aridità di un mondo freddo e desolato, per lasciarci scaldare dal calore che solo il legame autentico con l’Altro può regalarci.
“Potrebbero esserci delle persone vive in qualche altro posto.
Cioè dove?
Non lo so. In qualunque posto.
Intendi al di fuori della terra?
Sì.
Non credo. Non si può vivere da nessun’altra parte.
Neanche se fossero riusciti ad arrivarci?
No.
Il bambino distolse lo sguardo.
Cosa c’è?, disse l’uomo.
Il bambino scosse la testa. Non so cosa ci stiamo a fare qui, disse.
L’uomo stava per rispondere. Ma poi non lo fece. Dopo un po’ disse: Ce ne sono di persone. Ce ne sono, e noi le troveremo. Vedrai.”