Recensione di "La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite" di Byung-Chul Han dalla penna del dott. Luca Corti
Non giudicare il libro dalla copertina
(o dal numero di pagine, o dall'editore, o dall'autore)
Titolo del libro: La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite
Autrice: Byung-Chul Han
Anno di pubblicazione: 2020, trad. it. 2021
Editore: Einaudi Editore
Pagine: 88
Cosa leggiamo?
«Una caratteristica cruciale dell’odierna esperienza del dolore
consiste nel fatto che esso venga percepito come privo di
senso […]. Abbiamo disimparato l’arte di patire il dolore».
Ci troviamo alle prese con un saggio divulgativo del filosofo tedesco Byung-Chul Han, pubblicato durante una fase storica significativa e delicata in cui l’umanità intera si è trovata ad affrontare un virus dalle caratteristiche sconosciute. La recente pandemia da Covid-19 è, però, soltanto un pretesto per analizzare un tema ben più ampio. Attraverso una sequenza di brevi capitoli sapientemente collegati, sin dalle prime pagine ci troviamo infatti catapultati in un ragionamento lucido e tagliente sulla dimensione dolorosa dell’esistenza umana, concepita come esperienza autentica del mondo che ci circonda.
La società del nuovo millennio, caratterizzata dalla progressiva digitalizzazione di tutte le esperienze quotidiane, si trova più che mai lontana dalla dimensione dolorifica dell’esistenza. È soprattutto una «società palliativa», che tenta di allontanare il più possibile il dolore, guidata da una vera e propria «algofobia» che «ha come conseguenza un’anestesia permanente». Il discorso ha perfettamente senso, soprattutto dal punto di vista psicologico. Spesso, infatti, è proprio la nostra paura nei confronti di un determinato stimolo a condurci ad evitarlo, creando un vero e proprio circolo vizioso: più ci alleniamo ad evitare, più avremo paura, e così via[1].
Ma quali sono le conseguenze di una simile tendenza a livello sociale? Secondo il filosofo, la paura del dolore si traduce inevitabilmente in una spinta verso la performance, spesso mascherata tanto dal pericoloso concetto di resilienza, quanto dall’errata convinzione che chi non soffre sia automaticamente felice[2]. Nella logica di Han, anche la medicina e la psicologia dovrebbero riflettere sulle proprie responsabilità in merito. Il processo di cura dell’individuo non può infatti limitarsi al tentativo di sconfiggere in un modo o nell’altro le sue fatiche, ma deve passare attraverso un autentico rapporto interpersonale basato sull’ascolto e sull’empatia.
[1] Per un approfondimento destinato ai non addetti ai lavori, si rimanda a Harris, R., La trappola della felicità: Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere. Edizione italiana a cura di G. Presti, Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A, Trento, 2010.
[2] Una lettura interessante sul tema, anch’essa a carattere divulgativo, è senza dubbio Watzlawick, P., Istruzioni per rendersi infelici. Traduzione italiana di F. Fusaro, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1984.
Tre parole che rimangono
Algofobia: Rappresenta un atteggiamento strutturale di timore ed evitamento verso qualsiasi esperienza potenzialmente dolorosa, che caratterizza in particolar modo la società capitalistica contemporanea. Secondo l’autore «viviamo in una società della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo»,in quanto andrebbe a discapito della produttività. Il dolore obbliga l’individuo a rallentare, talvolta a fermarsi, e quindi da risorsa autoconoscitiva si trasforma in una debolezza da nascondere agli occhi degli altri. «Persino le pene d’amore sono diventate sospette».
Dolore: Come componente imprescindibile dell’esperienza, il dolore rappresenta una chiave d’accesso all’autenticità umana. Senza alcun patimento, la vita umana rischia di ridursi a mera sopravvivenza, svuotata della propria dimensione narrativa. È proprio attraverso la creazione di storie che in ogni civiltà, a partire dalle più antiche, l’essere umano ha sempre cercato di fornire una spiegazione al mondo circostante. Come ogni grande storia, anche quella dell’umanità è costellata di fallimenti, perché «senza il dolore, lo spirito resta uguale a sé stesso. La via della formazione è una via dolorosa».
Felicità: Oggi si assiste ad una vera e propria «coazione alla felicità», che si manifesta in maniera subdola e pervasiva in qualsiasi ambito della vita quotidiana. Impariamo a sorridere come forma di cortesia, a rispondere che va tutto bene e che dobbiamo essere felici a tutti i costi. Ci dimentichiamo che la felicità non può essere autentica se non include altre persone, mentre «oggi siamo dominati, intontiti, inebriati dall’ego». Inoltre, dobbiamo tener presente che una «vita priva di dolore e munita di costante felicità non sarà più una vita umana. La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina sé stessa».
Non ci resta che...
Renderci conto di quanto siano preziose le nostre fatiche quotidiane, piccole o grandi che siano, perché ci consentono di cogliere appieno la ricchezza dell’esperienza umana. Sono un potente strumento di condivisione, ma dobbiamo concederci la possibilità di prenderci una pausa nei momenti difficili ed accettare anche i nostri aspetti più fragili. «La felicità dolorosa non è un ossimoro. Ogni intensità è dolorosa. […] Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi a un apatico torpore. La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore».