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Il lavoro psicoterapeutico da remoto ai tempi del COVID-19. Interconnessioni fra setting esterno e interno

In questo mio scritto cercherò di approfondire il tema della psicoterapia effettuata da remoto (utilizzando il telefono, skype, zoom, facetime, ecc…), soprattutto mi focalizzerò su questo specifico e particolare periodo delle nostre vite, condizionato momento dopo momento dalla minaccia del coronavirus.
Particolare attenzione sarà posta sui mutamenti a cui il lavoro psicoterapeutico è obbligato in questa condizione, mi focalizzerò su come il setting si possa trasformare per garantire il miglior proseguimento del nostro lavoro psicoterapeutico. Le mie riflessioni non vogliono porsi come regole, ma come interrogativi e forse in alcuni casi utili suggestioni, che possano aiutare i colleghi alle prese con importanti cambiamenti nel nostro lavoro.
Lavoro che fin dai suoi albori si è costantemente confrontato con trasformazioni necessarie, per cercare di curare i disagi mentali che hanno condizionato nel corso degli anni differentemente le generazioni. Quindi il lavoro psicoterapeutico è un lavoro che apprende profondamente dall’esperienza, un lavoro scientifico ma anche di bottega mentale e pratica clinica.
Penso a questo nuovo cambiamento del lavoro da remoto, che riguarda oggi per forza tutti noi e sono fiducioso che si possa affrontare, come in passato è già successo più volte. Si pensi al lavoro di Racamier sulle psicosi e il suo celebre libro Lo psicoanalista senza divano (1982), al lavoro di Raymond Cahn sugli adolescenti e il suo libro La fine del divano? (2004),agli adattamenti terapeutici per la psicoterapia infantile e le proposte di trattamenti specifici per i gravi disturbi di personalità introdotti da Kernberg, Fonagy, Marsha Linehan e molti altri.
Questi cambiamenti, o meglio “aggiustamenti di rotta”, sono necessari per raggiungere il paziente dove lui è e per promuovere la cura, perché senza di essa il lavoro è inutile. Il percorso per raggiungere il paziente non si può però dare per scontato e necessita di una costante riflessione fatta fra colleghi sul nostro operato. Insomma necessitiamo di: un tagliando continuo.

Fin dall’inizio della mia pratica professionale come psicoterapeuta, mi sono sempre confrontato con il lavoro da remoto, in particolare utilizzando Skype. Mi sono ritrovato nel tempo con alcune pazienti che sono rimaste incinta e altri che hanno cambiato regione o stato di residenza. La scelta di continuare a lavorare da remoto è stata effettuata perché i pazienti non volevano cambiare terapeuta, non volevano fare un lavoro terapeutico in un’altra lingua e/o non volevano interrompere quanto fatto fino a quel momento. L’esigenza terapeutica mi ha fatto scegliere di accettare questa modalità di lavoro, che ho sempre portato avanti riflettendo sui mutamenti nella pratica e nel processo terapeutico, senza darli mai per scontati. Devo dire grazie ai miei maestri, in particolare a Giuseppe Di Chiara, che nel corso del tempo mi hanno aiutato con passione a “limare” gli strumenti, per cercare sempre di tendere verso la direzione di ricreare lo spazio terapeutico classico, in cui io mi sento sicuro e questa sicurezza è per me condizione necessario per il lavoro. Con classico intendo, citando Luciana Nissim Momigliano, quello spazio terapeutico in cui ci sono “due persone che parlano in una stanza”(2001) , mentre il lavoro da remoto vede all’opera due persone che parlano in due stanze differenti e cercano di creare una stanza terza in uno spazio  virtuale che è indefinito, un non luogo. Questa situazione che si viene a creare, ricorda il concetto di Ogden di “terzo analitico” (2005), che sottolinea quella dimensione intersoggettiva co-creata che permette al paziente e al terapeuta le trasformazioni indispensabili per la cura.
Così il setting nel lavoro da remoto è definito come uno spazio illusorio fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni e la fantasie, che fa sentire il paziente e il terapeuta allo stesso tempo in un contatto intimo-vicino, ma anche lontano. Inoltre, il concetto di mondo virtuale si collega con il concetto che noi abbiamo della “mente”, perché entrambi condividono un duplice stato: da una parte un luogo fisico, gli hardware e il cervello, e dall’altra parte una dimensione smaterializzata che ci influenza momento per momento (Marzi, 2013).

Oggi sappiamo che il lavoro da remoto è utile e funziona. Abbiamo numerosi lavori rispetto all’efficacia di psicoterapie iniziate di persona o che contemplano periodicamente degli incontri. Più perplessità ci sono invece rispetto ai lavori terapeutici che si iniziano tout courtda remoto, ma oggi vista la situazione di blocco mondiale, è necessario che ci si possa attivare anche in questa direzione. Almeno finché saremo obbligati a rimanere in quarantena.
Laddove il contatto fisico con l’altro è proibito, l’aiuto terapeutico invece diventa centrale. Il contatto emotivo profondo fra le persone sembra essere oggi l’antidoto alla paura e alla paranoia che può bloccare il pensiero. É fondamentale che il nostro lavoro continui per poter sostenere le persone che lavorano con noi e aiutarle a non fuggire dalle preoccupazioni affrontabili e fornire loro gli strumenti per convivere con queste nuove paure senza venirne soprafati.
Noi terapeuti abbiamo il compito di aiutare i pazienti a stare nell’opus incertum di questo periodo di grande crisi, in cui tutti siamo immersi. Si può lavorare con loro  affinché riescano a gestire al meglio le ansie e le angosce connesse al futuro ignoto.
Si potrà così aiutare le persone che ne hanno bisogno, con quegli stessi mezzi di comunicazione che spesso nell’ultimo periodo sono stati giudicati ferocemente come i portatori di un isolamento sociale. Invece, grazie alle nuove tecnologie, grazie all’uso che noi decidiamo di farne, potremmo promuovere una modalità nuova di stare insieme, che possa aiutare a mantenere i contatti umani profondi, necessari come l’ossigeno alla nostra vita.
L’importante è mantenere costantemente una fiducia attiva nella relazione terapeutica, una relazione che forse diventa più umana, perché si adatta anche oggi alle richieste della realtà esterna senza ignorarle.

Entrando nello specifico vediamo ora quali sono quegli aspetti che possono aiutarci a cercare di mantenere la relazione terapeutica e il tentativo di ricreare il setting, come quello spazio sicuro che promuova la cura. Ricordo che con setting si fa riferimento a quell’insieme di procedure che regolano i ritmi spazio-temporali delle sedute di terapia e la modalità del rapporto fra paziente e terapeuta. Il setting può essere esterno e interno.
Mi concentrerò per primo sul setting esterno, che è dato dall’insieme delle regole formali che definiscono e prefigurano la terapia. Queste solitamente sono: la costanza della stanza di terapia, le modalità di incontro (tempo),  la regolarità delle sedute (quando), il rapporto fra paziente e terapeuta, gli incontri fuori dallo studio, il conoscere persone in comune, se il paziente conosce altri pazienti e l’onorario. Sono delle regole fisse che consentono lo svolgersi stesso del processo terapeutico. Queste sono discusse ampliamente con il paziente nella fase iniziale del trattamento. La maggior parte di queste regole condivise rimangono invariate anche nel lavoro da remoto, ma alcune per forza mutano e nuove invece se ne aggiungono. Vi illustro una lista che mette insieme linee guida di diverse società internazionali ed esigenze terapeutiche che sono nate dal mio lavoro clinico. Alcuni di questi punti vi potranno sembrare ovvi e scontati, ma nelle terapie da remoto effettuate presso l’abitazione del paziente e in alcuni casi anche del terapeuta è importante ricordarsi: aspettatevi l’inaspettato.

  1. Domandarsi quali pazienti possono fare una terapia a distanza. E’ sconsigliato prendere in carico da remoto pazienti con gravi traumi, forti ansie da separazione e soprattutto in fasi acute di disagio con bisogno di contenimento. È fondamentale ragionare attentamente sul funzionamento psichico del paziente e sugli effetti, che il lavoro da remoto con le sue caratteristiche particolari, può avere su di lui.
  2. La tutela della privacy. E’ importante mantenere la privacy durante la seduta di psicoterapia. Sia paziente sia terapeuta devono fare del loro meglio per cercare di ricreare le condizioni di tranquillità come se si fosse in studio. Bisogna fare il possibile per essere in uno spazio privato dove non si può essere interrotti e disturbati. È importante che le persone che condividono gli spazi nelle casa sia del terapeuta sia del paziente, rispettino il tempo della seduta e siano sicuri di non sentire nulla. Il paziente è invitato a chiedere a chi è in casa con lui di tutelare il suo bisogno di privacy, andando abbastanza lontani da non udire la seduta, uscendo o guardando/ascoltando con le cuffie qualche cosa. Nonostante oggi gli spazi per molti dei nostri pazienti siano spesso piccoli, si possono sempre trovare delle soluzioni, alla fine di necessità si fa virtù. Alcuni mie pazienti che condividono appartamenti che non gli permettono di avere una privacy adeguata, vanno in macchina, in garage o addirittura sul tetto del palazzo.
  3. La comodità del paziente. È importante che il paziente sia comodo mentre fa la seduta, ma non in modo eccessivo. La situazione migliore sarebbe che il paziente stesse seduto su una comoda sedia/poltrona in uno studio. È consigliato evitare che il paziente si sdrai a letto, dove dorme, o stia sul divano della televisione, o sdraiato per terra o che cammini per lo spazio. Il fine è sempre quello di cercare di ricreare la situazione terapeutica in studio, quindi una comodità che non sia eccessiva e che permetta di essere concentrati sul dialogo terapeutico e non distrarsi troppo.
  4. Assicurarsi che il viso sia ben illuminato e visibile per entrambi. Il volto deve essere sempre ben visibile, anche perché nell’analisi da remoto diventa spesso il garante emotivo del linguaggio non verbale di tutto il corpo. Quindi bisogna porre attenzione a finestre che possono sotto o iper illuminare la stanza in alcuni momento della giornata.
  5. Telecamera fissa. E’ importante che la telecamere del supporto che desideriamo usare sia fissa (non tenuta in mano tutto il tempo) e che inquadri bene il viso e la metà del corpo superiore.
  6. Si consiglia di fare dei test sul funzionamento dei dispositivi, in modo tale che entrambi siano sicuri che tutto funzioni durante la seduta e che non si debba perdere del tempo.
  7. Piano B. Bisogna avere condiviso una modalità di lavoro alternativo se per qualche motivo la linea non dovesse funzionare.
  8. Cibo e altro. Se il paziente lo desidera, può durante la seduta tenere dei fazzoletti e dell’acqua vicino a lui. Invece è sconsigliato che possa mangiare snack o fare un pasto durante la seduta, è meglio che queste cose le faccia o prima o dopo, come se venisse di persona.
  9. L’abbigliamento. E’ importante che il paziente si vesta come se dovesse uscire di casa e si dovesse recare in studio di persona.
  10. Distrazioni. Sia il paziente sia il terapeuta devono spegnere qualsiasi altro device che possa in qualche modo disturbare la seduta. Se si usa il telefono, l’ipad o il computer, tutti gli altri programmi devono essere stati chiusi, in modo tale che l’attenzione sia rivolta solo allo spazio terapeutico e che nessuno possa essere distratto. Se il paziente o il terapeuta lo desiderano possono usare delle cuffie, se queste aiutano a rimanere più “in contatto” con lo spazio terapeutico ed eliminare i rumori esterni.
  11. Tempo pre e post seduta. E’ consigliato al paziente prendere del tempo libero per se stesso prima e dopo la seduta. Si consiglia almeno 10/15 minuti pre e post. Questo tempo rappresenta il momento in cui solitamente il paziente si reca allo studio del terapeuta e poi ne esce. È un tempo/spazio solitamente importante in cui il paziente da solo inizia già la seduta e successivamente la rielabora e assimila. Passare immediatamente da un ambiente casalingo, magari caotico, a quello terapeutico, potrebbe influenzare negativamente sia l’entrare in contatto con se stessi sia il ragionamento su quanto successo ed elaborato nel corso della seduta. Se questo spazio/tempo fosse difficile da ricreare, si potrebbe aiutare durante la seduta il paziente a dedicare un momento per “iniziare” e uno per “terminare” il suo lavoro terapeutico.
  12. POST-IT. Si consiglia fortemente sia al paziente sia al terapeuta di nascondere, per esempio con un post-it, la propria immagine riflessa durante la video-chiamata. Questo aspetto spesso non è considerato e gli si da poca importanza, ma va a colludere con gli aspetti narcisistici presenti (più o meno) in tutti noi. Pensate a come sarebbe fare una seduta di persona con entrambi uno specchio davanti!?
  13. Continuità del luogo. È consigliabile per il paziente e per il terapeuta provare a trovarsi sempre nello stesso posto, per promuovere la ritmicità e la sicurezza che il setting classico solitamente promuove.

Questi sono i consigli pratici che potrebbero aiutare a costruire in modo condiviso un setting che permetta al lavoro terapeutico di svilupparsi in modo autentico e spontaneo. È importante ricordare che si deve parlare a lungo con il paziente di tutte queste regole, dandosi il tempo per poterlo fare. Accettando anche che il paziente non sia d’accordo o alcuni punti non gli siano possibili, ma queste rotture del setting, come normalmente avviene di persona, faranno parte del processo terapeutico e saranno affrontate e approfondite durante le sedute.

Rispetto invece al tema del setting interno nel lavoro da remoto, penso che la discussione si faccia più ampia e complessa. Ricordo che con il concetto di setting interno si fa riferimento all’assetto mentale dello psicoterapeuta che si attiva nell’incontro con il paziente (Bleger, 1967). Il terapeuta è costantemente attento a ciò che il paziente dice, osserva le emozioni e gli affetti che si esprimono in seduta e contemporaneamente riflette su ciò che sta succedendo nel processo della diade terapeutica. Questa modalità di pensare è stata definita da Bion visione binoculare, che si può sviluppare se la mente del terapeuta si pone come spazio concavo, di ascolto e di accoglienza (Bion, 1965, 2013).
Mi limito in questo scritto embrionale a soffermarmi su due aspetti che sento essere molto più presenti nel lavoro da remoto rispetto a quello classico, che sono: il ritmo veloce e l’intimità.
Rispetto al ritmo che si sviluppa durante la terapia da remoto, sento che, se si rimane molto focalizzati sul vis a vis dello schermo, si possa cadere in scambi veloci e frenetici. Si possa sviluppare un dialogo che ricorda a tratti un’intervista e a tratti una chiacchierata fra amici, un chatting appunto. Invece, il fine del lavoro terapeutico è il poter sviluppare un racconto, inteso non solo come cronaca di avvenimenti e fatti esterni, ma anche e soprattutto di storia interna, intessuta di vissuti ed esperienze emotive consce ed inconsce (Di Chiara, 2003).
Per rallentare questo ritmo ho iniziato a prendere appunti durante la seduta e a tenere la mia poltrona non davanti al computer, in modo tale da poter guardare con più facilità non solo lo schermo. Questi accorgimenti mi aiutano a mantenere una modalità di attenzione molto simile a quella che ho solitamente in presenza.
Queste modalità sono sempre condivise con il paziente, così che non stimolino in lui fantasie di rifiuto da parte mia, che potrebbero interferire con il normale sviluppo del lavoro terapeutico. Inoltre, in questo periodo in cui si lavora solamente davanti allo schermo per numerose ore, il poter distogliere l’attenzione da questa lastra luminosa diventa anche necessario per affaticare meno gli occhi e la mente.
Il secondo aspetto riguardante il setting interno da tenere a mente è l’intimità. Nel lavoro da remoto il terapeuta entra nelle case dei pazienti e non è lui a riceverli nel suo studio. I mondi personali del paziente vengono velocemente svelati, la curiosità del terapeuta può essere rapita da dettagli dello sfondo e fargli sviluppare pensieri e fantasie che possono invadere il suo ascolto libero e rispettoso. Questo stesso fenomeno può succedere anche al contrario, il paziente può entrare in casa del terapeuta e anch’esso può sviluppare numerose fantasie distraenti. Il classico rapporto asimmetrico, che garantisce dei ruoli sicuri, può essere alterato. Inoltre, per alcuni pazienti questo ingresso del terapeuta nei suoi mondi intimi, può essere anche vissuto come un atto intrusivo e a volte persecutorio. Solitamente è  il paziente che decide di parlare e aprirsi rispetto ad alcuni argomenti, che lo sfondo della videochiamata in qualche modo può preannunciare. Pertanto bisogna prestare la massima attenzione e sentirsi liberi di chiedere al paziente cose che si vedono e che stimolano troppa curiosità e fantasia, in modo da riorientarsi sul paziente e ciò che lui decide di raccontarci. Ovviamente diremo a nostra volta al paziente di sentirsi libero di chiederci cose rispetto all’ambiente che vede, sempre per inibire gli stessi meccanismi che possono ostacolare un libero scambio terapeutico.

Concluderei il mio scritto raccontando un sogno che una paziente ha portato in terapia nella seconda settimana di quarantena forzata, quindi dopo due sedute via skype.
c’erano dei giganti contenuti, non alti come dei palazzi, che però seminavano un po’di terrore. Io ero in auto con mio zio e cercavamo di scappare. Le strade canoniche che si possono sempre prendere erano sbarrate, non si poteva passare. Così eravamo costretti ad andare per campi e meno male perché ci riuscivamo a mettere in salvo!”.
La paziente mi sta dicendo che la paura e l’angoscia per quello che stiamo vivendo sono presenti, ma sono contenute, le si può affrontare. Si può fare questo insieme e prendendo strade nuove, senza troppa paura, perché solo così ci si può mettere in salvo, i pazienti con i loro percorsi di cura e noi preservando e sviluppando il nostro lavoro di psicoterapeuti.

Oggi stiamo vivendo un periodo di intensa crisi, che ci spaventa  e ci fa sentire tutti molto vulnerabili, perché ci obbliga a relazionarci con ciò che non conosciamo. La parola “crisi” etimologicamente deriva dal verbo greco krino e solitamente ha un’accezione negativa in quanto sottolinea il peggioramento di una situazione e il blocco. Nel significato etimologico di questa parola però possiamo cogliere anche una sfumatura positiva, in quanto la crisi è anche un momento di riflessione, di valutazione e soprattutto di maturazione.
Per questo penso che la maturazione che forse nascerà da questo momento di crisi, possa portare a un miglioramento e a nuove modalità di pensiero e lavoro che miglioreranno l’intera comunità professionale. A mio avviso questa crisi porterà noi terapeuti a sviluppare un nuovo modo di lavorare con i nostri pazienti; il lavoro da remoto diventerà con il tempo una modalità psicoterapeutica differente e altra da quella in presenza. L’aspetto fondamentale è che questa trasformazione, questo sviluppo del nostro lavoro, siano sempre accompagnati da una ricco e attivo dibattito fra i colleghi. Nel nostro lavoro quotidiano ognuno di noi coglierà alcuni aspetti di questo “nuovo viaggio”, che potranno essere importanti per l’intera comunità professionale e arricchirla.
Non so se usciremo migliori da questa crisi del Coronavirus, come in molti in modo entusiastico affermano, a mio avviso ne usciremo provati, ma spero tutti più consapevoli e rispettosi dei nostri limiti e delle nostre vulnerabilità.

Bibliografia

Bion, W.R. (1965). Trasformazioni. Roma, Armando, 1973.

Bion, W.R. (2013). Los Angeles Seminars and Supervision. London: Karnac Books.

Bleger, J. (1967). Psicoanalisi del setting psicoanalitico. In Genovese R. (a cura di), Setting e processo psicoanalitico. Saggi sulla teoria della tecnica. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Cahn, R. (2004). La fine del divano? Roma: Borla Editore.

Di Chiara, G. (2003). Curare con la psicoanalisi? Percorsi e strategie. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Marzi, A. (2013). Psicoanalisi, identità e internet. Esplorazione nel cyberspace. Milano: Franco Angeli.

Nissim Momigliano, L. (2001). L’ascolto rispettoso. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Ogden, T.H. (2005). L’arte della psicoanalisi. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Racamier, P.C. (1982). Lo psicoanalista senza divano. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Valentino Ferro
Psicologo, Psicoterapeuta, Candidato SPI, Tesoriere OPL