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ARTICOLO – "Note e riflessioni sul concetto di autenticità in psicoterapia e non solo"

Note e riflessioni sul concetto di autenticità in psicoterapia e non solo

Valentino Ferro – ferro.valentino@gmail.com


 
Il concetto di autenticità è difficile da definire, ma è un elemento che struttura ed è insito a ogni individuo. Possiamo pensare all’autenticità come a un organizzatore della mente che allo stesso tempo è anche l’esito della mente stessa, è l’individuo nella sua totalità, che fa esperienza del suo agire. Dunque non è tanto il senso soggettivo di se stessi, ma è l’esperienza che l’individuo o il sé fa mentre agisce e vive nel mondo (soggettualità).
Si potrebbe definire una persona autentica come colui che mentre agisce quotidianamente fa esperienza di sentirsi coeso, vitale, in esplorazione, sicuro e all’interno di una continuità temporale che lo rappresenta. Questa breve definizione è comunque molto astratta e può essere difficile da comprendere a pieno; solitamente si sostiene che l’autenticità si noti quando manca, sottolineando così come l’individuo inautentico sia caratterizzato da una mancanza di senso di vitalità, di spontaneità e di creatività che emerge nell’incontro con l’altro. Mi trovo a essere molto d’accordo con questa affermazione e in generale i fenomeni complessi sono più facilmente definibili partendo dalla descrizione della loro “mancanza”. Potremmo però provare a rappresentarci in modo più concreto una persona autentica e forse immaginarla come colui che quando si relaziona con noi ci da un profondo senso di sicurezza, piacere e interesse in ciò che dice o che fa. Per dare una struttura più empirica a questo concetto a volte sfuggente, si può collegare l’autenticità con la passione del fare e del conoscere delle persone. Le persone autentiche potrebbero essere quelle che hanno interesse sincero verso quello che fanno e imparano in continuazione dal loro agire nel mondo.
L’autenticità dunque non si definisce per una sua staticità nel tempo, ma anzi la persona autentica è anche colui che è in grado di mettersi continuamente in discussione senza perdere il senso di sé. Le persone che trasmettono questo senso di autenticità-appassionata, solitamente si possono incontrare in svariate circostanze, come: il muratore che spiega quanto per lui sia importante fare bene il suo lavoro e in che cosa consista, una giovane madre che racconta di come pian piano abbia imparato a comprendere quando il suo bambino ha fame, il vinicoltore che ha voglia di raccontare come quel vino che si sta assaggiando è arrivato in quel bicchiere e quanta fatica e impegno ci siano voluti. Da un punto di vista di situazione clinica siamo abituati a vedere quando questa manca, perché molto spesso è il motivo che ha portato il paziente a richiedere aiuto.
Prima di parlare di clinica vorrei però sottolineare come già da queste brevi righe emerga che l’autenticità nasce e si sviluppa sempre in relazione con gli altri e ne abbia costante bisogno per svilupparsi e consolidarsi. L’Infant Research ha messo in luce come già dalle prime settimane di vita il bambino ricerchi l’altro e abbia bisogno di lui per conoscere, gestire e consolidare i suoi stati emotivi (Beebe & Lachman, 2002). Nella relazione diadica il bambino “testa” le sue aspettative e grazie alla sensibilità del caregiver impara a modularle (Riva Crugnola, 2012). Tronick ha evidenziato come nel sistema caregiver-bambino si creino nuove idee e concetti (simbolici e pre-simbolici) affettivamente impregnati che non sono né di uno né dell’altro, ma di entrambi e sono nati grazie alla mutua regolazione diadica. Attraverso rotture e riparazioni il sistema diadico diventa sempre più coerente e complesso (Tronick, 2008). Il bambino nel corso del suo sviluppo grazie alla (auto ed etero) regolazione emotiva, sostenuta e supportata dai caregivers, costruisce una fiducia in sé e nell’altro, che si può definire epistemica (Fonagy, 2014), e questa gli garantisce una sicurezza nel relazionarsi con l’ambiente circostante (mondo intersoggettivo), farne esperienza, e tollerare possibili frustrazioni modulando successivamente il suo agire nel tempo e nello spazio.
Dunque l’autenticità, che è molto sovrapponibile al senso di sé in azione, nasce e si sviluppa all’interno di un contesto intersoggettivo, e per poterlo fare a pieno e in modo potenzialmente creativo ha bisogno della sensibilità e dell’empatia dell’altro.
La psicoanalisi e le psicoterapie dinamiche hanno spesso parlato dell’autenticità, a volte usando proprio questo termine, a volte usando parole differenti ma sovrapponibili. Molti autori hanno sottolineato come uno dei fini principali del lavoro terapeutico sia quello di ristabilire o stabilire un senso di autenticità per il paziente, ovvero di continuità, sicurezza rispetto ai propri pensieri, al proprio sentire e alle proprie azioni.
Winnicott ha parlato di falso e vero Sé e come la ricerca di quest’ultimo sia l’obiettivo terapeutico (1971). Bion evidenzia come lo sviluppo dell’individuo sia dipendente dall’esistenza dell’altro e soprattutto dalla sua funzione di reverie, ovvero quella capacità di trasformare le emozioni e gli affetti in qualche cosa di sostenibile e pensabile per il bambino, che con il tempo introietterà tale funzione. Questo autore sostiene anche come il pieno benessere, si potrebbe dire anche un senso di sé armonioso e autentico, dipenda da quella capacità flessibile di far dialogare i vari elementi/personaggi che animano il nostro dialogo interno, e che si può sviluppare solo nella relazione con l’altro e nella percezione di come noi siamo con l’altro (Bion, 1989). Kohut ha parlato ampiamente di senso di sé e alla luce di quanto detto sull’autenticità, noi possiamo pensare che questa ne sia una delle caratteristiche principali (Kohut, 1982). Anche Daniel Stern ha parlato di soggettivazione come l’esperienza di sentirsi se stesso, di sperimentarsi nella propria attività psichica, nei propri sentimenti e nelle proprie azioni, e questa definizione è totalmente assimilabile con il concetto di autenticità fin qui descritto (Stern, 2005).
Numerosi altri psicoanalisti e psicoterapeuti hanno parlato di questi concetti, ma penso sia importante ricordare nel panorama italiano due pionieri di questo pensiero: Tommaso Senise e Giovanni Carlo Zapparoli sono stati in modo esemplare portavoce dell’idea di ristabilire nel paziente un senso di autenticità e di personificazione (esperienza di essere/sentirsi una persona). Senise nel suo lavoro con gli adolescenti focalizzava il suo intervento di psicoterapia breve sul trovare le risorse per poter far ripartire nel giovane quel processo spontaneo di ricerca e definizione dei propri interessi e passioni in modo autentico (Aliprandi, Pelanda & Seinise, 2014). Il professor Zapparoli, invece, lavorava con pazienti gravi e difficili e il suo modello dell’integrazione funzionale cercava di trovare un senso, anche sul piano pratico, nella vita di queste persone e che loro stessi iniziassero a vivere in modo più pieno, attivo e autentico, nonostante la psicosi (Zapparoli, 1999).
Tutti questi autori, e sicuramente tanti altri, hanno dato importanza e spazio all’autenticità del paziente, ma negli approcci più moderni, definiti relazionali, l’aggiunta importante e fondamentale è il prendere in considerazione anche l’autenticità del terapeuta, come qualche cosa che c’è nella terapia e che può essere un elemento potenzialmente trasformativo e positivo del trattamento.
L’esperienza che il paziente può fare di essere in un percorso terapeutico a due con una persona autentica è già di per se curativa, perché il paziente sente la sicurezza che l’altro ha nel “muoversi”, la quale si trasmette in modo del tutto inconscio, e da fiducia anche alla terapia stessa. L’autenticità può essere anche qualche cosa di più esplicito e non solo rilegato allo scambio fra inconsci, per esempio si può manifestare attraverso degli agiti comportamentali, degli enactment e delle self disclosure del terapeuta.

Autenticità nella pratica clinica

Quando la terapia funziona, noi terapeuti abbiamo la fortuna di poter osservare nei pazienti il senso di autenticità che pian piano inizia a riprendere il suo corso. Così possiamo osservare come una giovane donna, che è diventata da pochi mesi per la prima volta madre, riesca ad acquisire un suo modo di stare con il bambino, allontanando le pressioni e le aspettative di sua madre o della suocera o delle sorelle maggiori. Questo è visibile sia nell’aumentare del benessere psichico complessivo della donna, sia nei racconti sempre più ricchi di stupore e gioia, che descrivono i piccoli e bei momenti che caratterizzano la giornata con il suo bambino, o ancora nella capacità di tollerare, pensare e superare quei momenti di frustrazione e stanchezza per il pesante e gravoso compito dell’essere madre.
Un altro esempio può essere quello di una donna che lavora in un ospedale e inizia a capire e dar voce, nel campo intersoggettivo della terapia, al fatto che in certi momenti il suo lavoro non le piaccia a causa dello stare molto, forse troppo, vicino a persona che muoiono. Nel dire ad alta voce questi pensieri la donna inizia a legittimarsi e ad accettare che lei può anche a tratti odiare il suo lavoro, senza essere per forza lei quella sbagliata. Finalmente può così iniziare a usare con meno frequenza le sostanze stupefacenti che fino a quel momento erano servite ad “anestetizzare” il pensiero doloroso di essere sbagliata” o di non essere all’altezza.
Infine, penso a un paziente con il quale ho lavorato per più di tre anni, a quanto sia stato difficile per lui ri-iniziare a sentirsi potenzialmente vivo e autentico dopo la morte per una grave malattia di suo figlio di poco più di tre anni, quanto siamo dovuti rimanere insieme sui suoi sensi di colpa per essere quello che continuava a vivere, o quanto sia stato difficile per lui “abbassare la guardia” rispetto ai pensieri intrusivi e ingombranti riguardanti il senso di dovere nei confronti del resto della sua famiglia. Con il tempo l’autenticità si è manifesta quasi in “punta di piedi”, attraverso racconti di brevi momenti tranquilli, rilassati e felici per il paziente, come una nuotata in piscina, un giro in una libreria o una chiacchierata con il figlio adolescente. In tutti questi piccoli ma importantissimi momenti il paziente ha avuto bisogno di un sostegno, di un rinforzo e di un rispecchiamento del terapeuta, rispetto al fatto che fosse giusto e lecito che lui si permettesse ciò; ha dovuto in altre parole “testare” ripetutamente la sua nuova autenticità in divenire.
E il terapeuta, in tutto questo, come colloca la sua autenticità? Non è facile rispondere a questa domanda, soprattutto se si pensa che autenticità e spontaneità siano la stessa cosa. Per prima cosa mi premerei di dire che è difficile essere autentici, soprattutto per i terapeuti in formazione, come me. Negli anni di formazione si studia molto, si ascoltano seminari e si fanno diverse supervisioni. Spesso inoltre, quando si è nella stanza di analisi, il terapeuta non è solo con il paziente, ma si “fanno avanti i terzi”, i nostri pensieri possono essere influenzati da letture e supervisori, addirittura a volte vi è un dialogo interiore del “devi fare così o non devi fare così”. Luciana Nissim Momigliano ha descritto bene questa esperienza del terapeuta nello scritto “La relazione telepatica” (1989), sottolineando anche come forse i giovani terapeuti debbano passare per questi conflitti interiori e per riuscire pian piano a trovare la loro autenticità terapeutica debbano cimentarsi con il loro migliore collega, il paziente.
Detto questo, vorrei ritornare velocemente sul tema autenticità vs spontaneità, perché, soprattutto nel lavoro terapeutico di matrice relazionale, c’è il grande rischio che questi due concetti possano essere sovrapposti. Un terapeuta ha sempre l’obbligo di mantenere le regole del setting, che permettono alla coppia analitica di poter lavorare in relativa tranquillità. Fra queste regole ce ne è una molto importante che contraddistingue la specificità del lavoro psicoterapeutico, ovvero il fatto che la narrazione principale è del paziente, e il terapeuta è lì per ascoltarlo, aiutarlo e non rispondere al paziente come nelle normali conversazioni “io anche…” o “io invece…”. E’ difficile e ogni tanto questa regola si infrange con la self disclosure, ma sempre guidati da fini terapeutici. Dunque, a mio parere, l’autenticità guida anche la spontaneità del terapeuta mettendola al servizio del lavoro terapeutico e va anche oltre alla stessa spontaneità.
Un terapeuta autentico è colui che quando è insieme al paziente si dimentica della teoria che ha studiato, è attento a ciò che il paziente dice, e lascia emergere nella sua mente gli elementi teorici e tecnici che a tratti gli servono; ma ciò che principalmente lo guida è sempre e comunque la fiducia nel lavoro a due che si sta svolgendo nella stanza di analisi. Il paziente percependo il terapeuta come autentico, potrà fidarsi del loro lavoro e pian piano anche lui svilupperà questa capacità, testandola, seduta dopo seduta, insieme a un altro partecipe.
Penso che un terapeuta capisca di essere autentico solo grazie alle risposte del paziente. In alcuni momenti, infatti, egli risponde a quello che diciamo o facciamo in modo più particolare, quasi stupito, affettivamente stupito, come se dicesse “ah ma allora tu ci sei, tu sei qui con me e mi capisci”.
Nell’ultima seduta prima delle vacanze di Natale una paziente con la quale lavoravo da un anno, andando via mi salutò dandomi per la prima volta due baci sulle guance e augurandomi buone feste. Lì per li fui colto di sorpresa e mi sentii a disagio. Nelle feste ragionai su quel disagio e compresi che per lavorare tranquillamente e in modo “comodo” io avevo bisogno di mantenere una distanza “prossimale” con i pazienti, nella quale appunto il contatto fisico si limitava alla stretta di mano all’inizio e alla fine della seduta. Compresi che questa non è una regola universale, probabilmente altri terapeuti lavorano in modo differente, ma io non mi sentivo a mio agio nel lavorare in modo differente. La prima seduta dopo le vacanze la paziente arrivando in studio provò a baciarmi nuovamente sulle guance e io educatamente le porsi la mano e mi scostai. Ovviamente ci fu un momento di intenso imbarazzo e percepii che la paziente si sentiva fortemente in difficoltà, come se avesse sbagliato qualche cosa. Una volta iniziata la seduta parlammo di quanto appena successo e spiegai alla paziente le mie riflessioni sulla necessità di lavorare sentendomi a mio agio. La paziente fu molto sollevata di comprendere che lei non aveva fatto nulla di male. Superammo l’imbarazzo, e mi disse che si sentiva vicina a me, perché anche lei sul lavoro odiava dover svolgere alcune mansioni che non le appartenevano o che sentiva lontane da sé; così questo momento aprì la strada a una nuova possibilità narrativa per il nostro lavoro terapeutico.
Vi sono altri momenti in cui ho sentito che i pazienti hanno incontrato la mia autenticità e fortunatamente sono sempre stati attenti e mi sono sempre sentito rispecchiato, però questo elaborato non sarebbe un degno testo psicoanalitico se non citassi, come tantissimi altri prima di me, una vignetta terapeutica che riguardi un fantomatico ombrello.
Una paziente che stava attraversando un difficile periodo emotivo a causa di difficoltà relazionali con il suo compagno, in una giornata di pioggia si presentò in studio tutta bagnata, e subito, involontariamente, notai che non aveva l’ombrello. La feci accomodare in studio e le dissi di aspettarmi un attimo, senza pensare troppo andai in un’altra stanza a prendere un ombrello. Tornato nello studio glielo diedi e la paziente inizialmente rifiutò, ma io in modo deciso le dissi che non poteva andare in giro con quell’acquazzone senza ripararsi. La paziente accettò e ne fu alla fine molta contenta. Nelle sedute successive per molto tempo questo mio semplice e spontaneo gesto di aiuto in un momento di difficoltà divenne una sorta di metafora rispetto alla sua difficoltà a chiedere aiuto e più in generale a comunicare i suoi bisogni.
Concludendo, spero di non essermi “perso” nel discutere un concetto così difficile come l’autenticità, ma forse è necessario anche perdersi nelle riflessioni su concetti di questo tipo per poter ragionare su cosa per noi stessi sia l’autenticità. Forse l’autenticità ha bisogno essenzialmente dell’incontro con altri significativi per potersi sviluppare a pieno e in modo creativo, così da essere sempre in continua evoluzione.
 

Bibliografia

Aliprandi, M. T., Pelanda, E. & Senise, T. (2014). Psicoterapia breve di consultazione. La metodologia di Tommaso Senise nella consultazione con l’adolescente. Milano: Mimesis.
Beebe, B., & Lachman, F., M., (2002). Infant research e trattamento degli adulti: Un modello sistemico diadico delle interazioni. Milano: Raffaello Cortina.
Bion, W. R. (1989), Seminari clinica. Brasilia e San Paolo. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Fonagy, P. & Allison E., (2014). The Role of Mentalizing and Epistemic Trust in the Therapeutic Relationship. Psychotherapy, 51(3), 372–380.
Kohut, H. (1982), La ricerca del sé. Torino: Bollati Boringhieri Editore.
Nissim Momigliano, L. (1989). La relazione telepatica. In L’ascolto rispettoso. Scritti psicoanalitici. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Riva Crugnola, C. (2012). La relazione genitore-bambino: Tra adeguatezza e rischio. Bologna: il Mulino.
Stern, D. (2005). Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Tronick, E. Z., (2008). Regolazione emotiva. A cura di Riva Crugnola, C., Rodini, C., Milano: Cortina.
Winnicott, D. (1974). Gioco e realtà. Roma: Armando Editore.
Zapparoli, G. C. (1999). La psicosi e il segreto. Torino: Bollati Boringhieri.