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ARTICOLO -LA QUESTIONE RELAZIONALE: QUALCOSA CHE VIENE DA MOLTO LONTANO, DALLA PERSONALITA’ DELL’ANALISTA CHE INTERAGISCE di Sandro Panizza

alessandro_gottardo_shout_picame_8Immagine: Alessandro Gottardo

 

LA QUESTIONE RELAZIONALE: QUALCOSA CHE VIENE DA MOLTO LONTANO, DALLA PERSONALITA’ DELL’ANALISTA CHE INTERAGISCE

di Sandro Panizza

 
Sandro Panizza: psichiatra e psicoanalista, è membro ordinario della Società psicoanalitica Italiana (SPI), dell’International Psychoanalytic Association (IPA) e del Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti. Già redattore della rivista “gli Argonauti”, ora è caporedattore della “Rivista di psicoanalisi”. Ex-primario psichiatra, supervisore dell’Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente. Ha pubblicato libri di carattere psicoanalitico e di psicoanalisi applicata alle istituzioni, il suo ultimo libro scritto con Anna Bassetti è “Tra psicoanalisi e psicoterapia: un ponto verso l’avvenire”, Franco Angeli, 2014.

Introduzione
Con questo lavoro tento di affrontare la questione relazionale, come qualcosa che data dalle origini stesse della psicoanalisi, e che si coagula, a partire dagli anni 80, in un indirizzo preciso a base larga.
All’inizio, ero mosso dall’idea di rendere giustizia alla questione relazionale, rispetto alle comuni distorsioni e fraintendimenti, che spesso hanno a che fare con una certa sufficienza e disinformazione da “vecchio continente”.
Mi sovvengono le parole di un collega psicoanalista più vecchio, in sapore di filosofia, al proposito: < Ma quelli…gli americani…gli intersoggettivisti, in fondo, non hanno avuto Kant, Hegel e l’idealismo, Marx, la fenomenologia, l’esistenzalismo…; poveri! Sono persi nel loro pragmatismo di vernice!>.
Insomma sentivo l’esigenza di andare alle “cose stesse”.
Compulsando le fonti originarie non tradotte, trovavo che la matrice relazionale per costituzione aveva una voce plurale, polifonica, recitata da autori che hanno un denominatore comune, l’incontro bipersonale, ma articolata in punti di vista diversi, e prospettive teorico-cliniche differenti.
Nel 1999 Mitchell e Aron, i fondatori, diedero vita ad un’opera collegiale di particolare significato:”Relational perpective: an emergence of the tradition”.
In questo volume diedero il proprio contributo autori diversi, che avevano in comune uno schema, un’idea, una griglia: mentre dall’altro lato avevano idee originali e dissimili tra loro, in molti punti.
Qual era il progetto e cosa aveva in mente Mitchell, un anno prima della sua morte?
    Un common ground  che dava per acquisita la presenza di una sfera intrapsichica, di una sfera interpsichica, e del reciproco influenzamento, simultaneamente.
    Un “privat field”, dove ciascun autore relazionale potesse sviluppare il proprio contributo personale e diversificato nei confronti di altri. Benjamin, Aron, Mitchell stesso ovviamente, Hoffman, Stolorov, e altri, aderirono con entusiasmo a questo progetto, e diedero vita ad un dibattito clinico teorico di ampia portata, di cui vorrei riportare qui l’eco: e qualcosa di più.
    Cominciare dalla storia. Una storia antica, che parte da Freud e da Ferenczi, e, per una via contorta, che attraversa fenomeni sociali drammatici, quali la diaspora dal nazismo imperante , approda prima in Inghilterra, poi in America. Le tappe del percorso hanno diversi nomi: teoria delle relazioni d’oggetto, teoria dell’attaccamento, teoria interpersonale, culturalista, psicologia del sé, infant research, ecc., su su fino alla questione relazionale sempre più definita attorno agli ani 80.

La storia
Vediamo al rallentatore i vari passaggi tratti dalla storia.
Tutto era cominciato con Freud.
Da subito intagliò due linee di lettura della psicologia umana, che a tratti correvano parallele, per poi intrecciarsi o sostituirsi.
Da una parte la linea “pulsionale-strutturale”, che culminò negli scritti degli anni venti; dall’altra quella relazionale-oggettuale (dove l’oggetto è sia esterno che interno) che troviamo, adombrata negli inizi della teoria traumatica,  in “Lutto e melanconia” in “Introduzione al narcisismo” e in ordine sparso e molecolare in tutta la sua opera(Scritti tecnici:telefono; Metapsicologia: l’inconscio).
Un fatto storico, che rappresentò e concrettizzò una sorta di realizzazione simbolica, segnò un divorzio di cinquant’anni tra le due linee, segnando il futuro della psicoanalisi.
Nel ’32 avvenne il contrasto definitivo tra Freud, più interessato alla conoscenza dell’inconscio, e Ferenczi, più votato alla cura). Ferenczi, durante un incontro, aveva letto a Freud, il saggio “sulla confusione delle lingue”, destandone la perplessità. Ferenczi, nell’abuso infantile, sosteneva e rilanciava la realtà dell’interazione traumatica, la realtà della percezione, il doppio tradimento psicologico dell’abusante e dei familiari, e le ricadute nella mente del bambino, sotto forma di cristallizzazione emotiva. Evidentemente, nelle parole del saggio, la corrente relazionale si intrecciava con quella intrapsichica.
Dallo scambio epistolare successivo sappiamo che Freud ”diede le spalle” a Ferenczi, considerando il saggio “sulla confusione delle lingue” come una retrocessione della psicoanalisi dalla fantasia traumatogenica, alla teoria traumatica relazionale: dall’intrapsichico si tornava all’interpersonale
In questo fatto, possiamo intravvedere l’atto simbolico del divorzio tra le due correnti psicologiche: quella strutturale e quella relazionale, quella intrapsichica e quella interattiva.
Ovviamente è necessario sottolineare che, pur con accenti diversi, le due correnti continuavano a convivere, come separati in casa, sia in Freud che in Ferenczi. Tuttavia, dovremo attendere cinquantanni, in cui i percorsi procedevano separatamente, in concorrenza, sfidandosi e contrapponendosi, per assistere nuovamente all’accostamento e all’embricatura delle due correnti: tornare a vedere l’intrapsichico e l’intersoggettivo rincorrersi, raggiungersi, ricongiungersi e determinarsi reciprocamente.
Guardiamo innanzitutto il percorso della teoria pulsionale-strutturale, che fedele alla sua compattezza e al peso specifico di chi guarda obiettivamente al dato, procede per tappe solide, con pochi aggiustamenti: pochi nomi ne scandiscono le tappe, pochi, ma scolpiti nella roccia

Inghilterra
La teoria pulsionale-strutturale di Freud, che postula la priorità, se non l’esclusiva dell’intrapsichico, con l’avvento del nazismo, si sfiocca in due correnti migratorie, l’una in Inghilterra, al seguito di Freud e della figlia, l’altra in America, al seguito dei suoi allievi.
Nel continente restò ben poco di essa.
In Inghilterra, la paladina della teoria strutturale(un passo a destra rispetto a quella pulsionale) fu Anna Freud, che sviluppò l’aspetto dinamico, concentrandosi sulle difese: cioè sull’io. Il suo approfondimento teorico portò ad una forte collisione con la teoria relazionale che aveva i suoi primi vagiti nella teoria della relazione d’oggetto di Klein, Fairbairn, Winnicott, e dall’altra parte gettò il ponte per lo sviluppo americano della psicologia dell’io. Il connubio tra A. Freud e l’Inghilterra rappresentarono il modello di un connubio successivo tra Psicologia dell’io e America.
Tuttavia in Inghilterra, tra gli anni quaranta e cinquanta, avvenne un formidabile scontro tra teoria strutturale e teoria relazionale, nella versione inglese di teoria della relazione d’oggetto: dove l’oggetto cui mi riferisco, non è solo quello interno della Klein e dei kleiniani, ma anche quello interno/esterno, di Balint, Winnicott, Fairbairn, e Guntrip, e quello esterno della teoria dell’attaccamento di Bowlby.
Non bisogna scordare che l’esordio di una teoria relazionale in Inghilterra aveva una paternità precisa: quella di Sandor Ferenczi. Con Ferenczi aveva fatto una prima analisi la Klein, quindi  Balint, e Rickman, futuro analista di Bion, e infine lo stesso ambivalente Jones.
Insomma tutti i teorici e i capostipiti della teoria della relazione d’oggetto, nelle varie diramazioni, erano passati direttamente o indirettamente, per le mani di ‘’papà Ferenczi’’come dirà Clara Thomson, venendone in un modo o nell’altro influenzati. Quel Ferenczi, che aveva fatto della relazione analitica il centro progressivo e sperimentale dei suoi interessi per la cura.
Lo scontro tra A. Freud e la Klein fu tremendo: condusse alle “discussioni controverse” degli anni ’50, con la suddivisione della scuola di psicoanalisi inglese tra gli orientamenti freudiani, kleiniani, e la costituzione del gruppo di mezzo, indipendente.
Lo scontro verteva su molti aspetti: clinici, tecnici, metapsicologici. Credo, tuttavia, che, a ben vedere, la sostanza riguardasse soprattutto l’impatto tra una teoria della struttura interna della mente e una teoria della relazione d’oggetto, la relazione con glia altri, declinata in modi diversi. Sebbene lo scontro aperto coinvolgesse freudiani e kleiniani in senso stretto, la portata si estese a tutta l’area teorica oggettuale. Citiamo in modo rievocativo, alcune espressioni aforistiche degli ”oggettualisti”.
L’isolato Fairbairn: < la pulsione non mira al piacere ma all’oggetto >.
Winnicott: < non c’è qualcosa che si chiama bambino…senza una madre >.
La Klein stessa immagina un neonato già competente a relazionarsi con gli oggetti (tesi tanto contestata per molto tempo dalla teoria del narcisismo primario, ma alla fine ampiamente documentata dalla infant research).
Ancora Bion, che parlerà dell’identificazione proiettiva del baby capace di mettere in contatto il bambino con la madre: della reverie di quest’ultima che darà forma e capacità funzionale  alla mente del bambino.
La corrente strutturale si disimpegna da queste teorizzazioni relazionali sensu lato, in modo dogmatico, considerandole esplicitamente o meno, annacquamenti superficiali, coscienzialisti o immaginifici, della vera psicoanalisi: quella delle pulsioni e delle strutture. Ancora di più in USA

In America…
Era sbarcato Freud nel 1909, lasciando tenui forti tracce: la peste.
Dovremo aspettare la corrente migratoria degli analisti attorno agli anni quaranta, per assistere ad un radicamento ed ad una proliferazione.
In America, nell’alveo strutturale classico nasce e fiorisce la Psicologia dell’io.
Quest’ultima ha due radici: una inglese come estensione della corrente anna-freudiana.
Una Viennese, per l’importo diretto di alcuni allievi di Freud sbarcati direttamente nel nuovo continente.
La psicoanalisi americana, impiantata in un solido retroterra pragmatistico, stacca un biglietto di sola andata, senza ritorno, per la teoria delle pulsioni e delle strutture, offrendo una specializzazione alla struttura “io”, che viene a godere di una maggior autonomia dalle forze abissali dell’inconscio. Quasi in omaggio allo spirito dei padri fondatori e dei coloni, l’io diventa il conquistatore di aree sempre più vaste di autonomia. Se Freud portava la peste, la psicologia dell’io porta l’adattamento all’A.Deam.
Per il resto, Hartman, Kris e Lowestein, progenie mitteleuropea, direttamente in contattto con Freud, non modificano nulla della teoria strutturale-pulsionale. Anzi, prendendo molto sul serio la centralità dell’io-difesa di Anna Freud, innalzano un baluardo ancora più rigido contro la “barbarie” pulsionale-oggettuale-relazionale, i cui influssi cominciavano a farsi sentire dall’Inghilterra e da una radice autonoma americana, che metteremo a fuoco in seguito.
Per molto tempo, la psicoanalisi classica americana, con sede istituzionale nell’APSaA, ha ritagliato i suoi confini metapsicologici e politici dagli assalti della barbarie circostante, oggettuale, relazionale.
Nella metapsicologia strutturale sono accolte all’interno dei confini alcune varianti, che non incrinano il nucleo del canone: Eissler con i suoi parametri per pazienti gravi; Searles col suo interesse per l’interazione con pazienti psicotici; Gill, che fece storcere non poco il naso, per i suoi contributi circa le dinamiche transfert-controtransfert; Shaffer, con le sue concettualizzazioni rivolte all’ermeneutica e alla narratologia, e all’azione terapeutica .
Accoglierà persino Kohut, forse più per l’abilità politica di quest’ultimo, che per una vocazione all’apertura da parte dell’APsaA.
Per il resto, gli altri stanno fuori dagli steccati ufficiali e da possibili scambi “politici”.
Nessun rapporto quindi con Sullivan e la psicoanalisi interpersonale di antico conio, quanto la psicologia dell’io: non certo una moda; nessun rapporto con Fromm e la psicoanalisi umanistica; e neppure coi kleiniani che bussano alle porte dal subcontinente sudamericano.
L’aneddottica racconta che Winnicott, chiamato negli anni settanta nel nordamerica a tenere un ciclo di conferenze sulla tecnica, esibì un revolver sulla cattedra, per difendere il suo approccio psicoanalitico da probabili detrattori: voleva significare che il suo interesse peculiare per i rapporti madre-infante, reali e fantasmatici, e il suo modo di intendere la psicoanalisi come un rapporto eutrofico tra analista e paziente, erano a tutti i livelli da considerarsi psicoanalisi.
Sul piano politico, l’APsaA relegherà in uno spazio oltre confine, i movimenti minoritari e contestativi partiti al suo interno: la questione femminile, la questione omosessuale, la questione dell’analisi esercitata da non medici.
La questione politica non è secondaria per la psicoanalisi classica, perchè porta una problematica relazionale nel cuore della sua cultura.
Le femministe sottolineano la relazione uomo/donna, le polarizzazioni naturalistiche o storicistiche che celano fondamentali questioni di potere con esiti autoritari. La demistificazione delle sovrastrutture del potere, colgono nel segno una psicoanalisi fortemente improntata a modelli gerarchici autoritaristici.
Gli omosessuali mettono al centro del dibattito sul genere, la cultura, al posto e al fianco dei vincoli naturali, intaccando l’orientamento d’una psicoanalisi pulsionale che pone al proprio fondamento la natura.
Gli psicologi, aspiranti psicoanalisti, scardinano l’ideologia medica, naturalistica e organicistica, ambiguamente legata alla psicoanalisi, per proporre, paradossalmente, l’introduzione degli aspetti psicologici in psicoanalisi; aspetti cioè aperti allo scambio comunicativo, piuttosto che chiusi in un sistema autoreferenziale, di coloritura organicistica.
Cercando di riassumere questo ampio movimento preparatorio e costitutivo della matrice relazionale, potremmo delineare uno spaccato: in America, negli anni ottanta, convergono molte tendenze relazionali di diversa provenienza. In particolare alcune provengono dall’eredità molecolare di Ferenczi; altre dall’elaborazione autonoma e originale di filoni caratteristici del clima innovativo, aperto e sperimentale del nuovo continente.
1 l’opera di critici raffinati, e autori originali classici: Gill, Loewald, Shaffer, Searles, ecc.
2  Sullivan, i contributi di quella umanistica di Fromm
3  Da importanti apporti anglosassoni: dai teorici della relazione d’oggetto (Fairbairn, Guntrip), dagli indipendenti inglesi (Winnicott, Bollas, Casement..), dai teorici dell’attaccamento(Bowlby) e dagli sviluppi recenti( Fonagy, Targett, Main, Ainworth ecc.), dai postkleiniani (Bion) e dai neokleiniani (Josef) ecc.
4  dall’infant research
5 Dalla psicologia del sè.
Attorno agli anni ottanta, da queste diverse sorgenti autonome, differenziate, che spesso s’ignorano e divergono, nasce un’originale convergenza in una cornice unitaria che ha l’ambizione di collegare i vari apporti, in un mosaico coerente: qualcosa di più della loro somma: la matrice relazionale.
Questa cornice è inclusiva e accoglie le varie componenti in un disegno essenziale: vedere l’intrapsichico determinato dalla relazione tra persone; e il relazionale determinato dall’incontro di singole soggettività, di mondi intrapsichici diversi: un circolo virtuoso nel benessere, un circolo vizioso nella patologia. L’uno e l’altro nella quotidianità.
Le vicende della matrice relazionale sono fortemente intrecciate con le vicende della creazione di un centro di ricerca :il NYU postdoctoral program of Psychoanalisys.

NYU postdoc
La Prospettiva Relazionale, implicita nella scelta del nome e nei programmi del Nyu Post Doc, era di concentrare il focus dell’interesse sul legame tra relazioni interne ed esterne della psicoanalisi. Sull’embricatura tra intrasoggettivo e intersoggettivo. Ponendosi come ponte di ricerca di tutti i filoni coerenti con questo motto, si distinse dalle tradizionali scuole interpersonali rivolte all’esterno e da quelle classiche, nonchè delle relazioni oggettuali, indagatrici dell’interno. E si qualificò come ricerca inclusiva che ospitava le teorizzazioni di chi s’interessava ai rapporti tra interno ed esterno.
Nella matrice relazionale del Posdoc, confluivano vari orientamenti attraverso il filtro di singoli teorici.
L’interpersonalismo di Stephen Mitchell che proveniva dagli interpersonalisti dell’Alanson White Institute. L’esistenzialismo, femminista di Jessica Benjamin, vicina all’ermenutica di Gadamer, per porre il suo interesse sulla soggettività
La provenienza dall’infant-research Di Beebe, che introdusse criteri regolativi ed organizzativi anche nella clinica psicoanalitica dell’adulto .
Hoffman di matrice costruttivista. Stolorov di origine kohutiana, introdusse il polo mancante nella psicolgia del sé: L’altro interattivo. L’orientamento relazionale fu alla fine un crogiuolo non eclettico, ma inclusivo, dove  questi indirizzi differenziati, si fecondarono a vicenda, portando ad un ripensamento originale in un’ottica intrapsichica/relazionale di molte pietre miliari della psicoanalisi. 

Un’introduzione clinica
Sappiamo da sempre, ma ci crediamo analiticamente da poco, che questo rapporto speciale, conscio ed inconscio, coinvolge, volente o nolente, la personalità dell’analista: lo chiama in causa nelle sue determinanti attuali, e nella sua costituzione storica. Lo scambio analitico fitto fitto, un intreccio di comunicazioni subliminali, annoda una rete, che riorienta continuamente gli assetti dei partecipanti. Ogni tanto poi, la fitta rete si raccoglie in nodi più grandi, catalizzando cambiamenti del mondo interno, nuovi comportamenti, un riassetto dello stile relazionale del paziente.
Alcuni Fattori sono quotidiani, continuativi: come l’ascolto rispettoso (Nissim 2000) e l’identificazione empatica. Altri sono discreti, e a spot: come l’enactment e la self disclosure.
Il denominatore comune che caratterizza i diversi ‘atti della cura’ è l’ingresso in campo della personalità inconscia dell’analista: nell’incontro col paziente, fa da cerimoniere, da matrice inconscia, agli ‘atti curativi emergenti’.
Se due persone dialogano e si influenzano in una stanza d’analisi non è di scarsa rilevanza la loro personalità di base e lo stato d’animo del momento.
a)L’ESCLUSIONE DELLA PERSONALITA’ DELL’ANALISTA NELLA STORIA
La psicoanalisi, sin dal suo sorgere, ha incontrato il problema dell’interferenza della personalità dell’analista, e s’è data l’obiettivo di oscurarla attraverso la neutralità e l’astinenza, l’asetticità per agevolare e non inquinare il transfert. Stranamente, o forse profeticamente nel paradosso storico, Freud chiama in causa la metafora dell’asetticità chirurgica dei sentimenti, proprio quando introduce la metafora del telefono(Consigli al medico..1912): nello stesso scritto neutralità e comunicazione tra gli inconsci fanno la loro comparsa(probabilmente Freud dev’essersi accorto, in modo subliminale, che per telefono passa anche la personalità inconscia dell’analista).
La personalità dell’analista era stata sentita innanzitutto come ostacolo e minaccia alla cura: l’analisi didattica-istituzionalizzata dal 26, sul modello berlinese di Eitington, doveva rendere lo strumento-personalità dell’analista, diafano, quasi adamantino, in modo che non interferisse nel transfert; la manutenzione quinquennale(Freud, 1937), divenuta parte dell’ analisi del controtransfert, doveva irretire gli sbuffi dei capricci inconsci dell’analista. Si procedeva come se la tecnica della cura potesse artificiosamente essere disincarnata dalla personalità dell’analista.
Il periodo iniziale, la fase arcaica della psicoanalisi, centrava la cura su ‘render conscio l’inconscio’: riteneva che la conoscenza dei conflitti inconsci, comunicata via interpretazione, significasse per sè stessa la cura senza residuo.
Vi era un’illusione di asetticità come prerequisito e come condizione della tecnica terapeutica, benchè lo stesso Freud consciamente e deliberatamente più volte avesse infranto questo precetto, e espresso la sua personalità con alcuni pazienti (Ratman, Wolfman), e inconsciamente con altri(Dora)! E non solo lui! Abraham esprimeva la sua morigeratezza e asciuttezza Tedesco-talmudica; Ferenczi, la sua passionalità; Jung il suo dispotismo, Reich la sua ossessività. Se percorriamo la sequenza degli analisti noti nella storia della psicoanalisi, troviamo spesso la personalità e persino la caratterialità dei nostri eroi scendere in campo con i pazienti. Addirittura aprire nuovi cassetti teorici, e prospettive originali: l’interesse di Freud per l’Edipo, a partire da una famiglia dalle interazioni generazionali e sentimentali intricatissime: un padre quasi nonno; un fratello quasi padre; una madre coetanea del fratello(Robert).
L’interesse della Klein per l’aggressività e la persecutorietà, a contatto con la severità della madre Libussa, che gestiva un negozio di serpenti a Berlino(Grosskurt).
L’interesse di Kohut per il narcisismo, mentre trascorre una vita intera in un rapporto simbiotico con la madre(vd biografia).
E’ sufficiente lo scorcio di alcune biografie e autobiografie disponibili.
La personalità dell’analista doveva stare fuori per 3 motivi secondo le direttive classiche:
1 per non inquinare il transfert e pore rimedio alle intemperanze controtransferali
2 per evitare la suggestion personale(Messner) che minava la scientificità
3 per dissolvere il dubbio di una disciplina ebraica, date le origini del fondatore e dei primi compagni del circolo Viennese.

L’ingresso in analisi della personalità dell’analista
Dunque, la personalità dell’analista, per quanto analizzato, anzi, anche grazie alle aperture consentite dalla sua analisi, si gioca sempre nella relazione col paziente. Voglio pensare che la personalità dell’analista, per quanto vi sia di più radicale e radicato in ciascuno, oltre ogni analisi, interviene costantemente e continuamente in quello specialissimo rapporto intimo, ad alte energie, che è la relazione col paziente e interagisce con quella del paziente.
E questo in almeno tre modi:
-Innanzitutto per come il carattere dell’analista è costituzionalmente e individualmente segnato dalla sua vita privata: dal suo genoma, dalle esperienze affettive, formative, culturali, prima dell’incontro con un determinato paziente: carattere ‘fondamentale’ che non può essere dismesso all’occasione, come un vestito appeso all’attaccapanni, sulla soglia dello studio d’analisi.
Tutti questi aspetti entrano in seduta senza chiedere permesso all’analista stesso, in mille modi. e solitamente danno frutti diversi.
Già dagli inizi della psicoanalisi le diversita’ dei caratteri dei protagonisti apparivano enormi: lo studio di Freud nella Bergasse, popolato da più di duemila statuette antiche, parlava d’un carattere diverso dallo studio della Klein, o dei suoi allievi, vuoto, con qualche gioco di bimbo sparso per terra. Tutto questo, insieme agli aspetti creativi di ciascuno. Immaginiamo le aspettative agli antipodi, che nascono nel paziente nel momento in cui varca la soglia dei due studi.
E venendo a tempi più vicini a noi, per esempio è difficile immaginarsi un Bion,‘senza memoria e desiderio’, ‘tendente a O’, visto come un ‘mistico’ da alcuni, che non avesse attraversato un’infanzia Indiana, respirando atmosfere buddhiste ed induiste; che non avesse incontrato in adolescenza una prima morte rituale nel college inglese; e in età adulta una drammatica morte rituale, per poco evitata concretamente, con la prima guerra mondiale(La lunga attesa). Il suo carattere ‘clinico e teorico’ porta marchiate queste cicatrici ‘creative’.
In secondo luogo, proviamo a pensare poi all’ analista compreso nell’ umore del momento, prima dell’incontro con quel paziente: al momentaneo stato di preoccupazione, di stanchezza, di dolore, svuotato dall’ultimo incontro con un paziente suicidiario. Un fardello di sentimenti personali che si intrecciano nel successivo rapporto analitico: il nuovo paziente lo avverte inconsciamente con le sue antenne sottili, anche se non lo dichiara per pudore.

Un ulteriore esempio di questo illustra un aspetto così ostico da pensare e tenere a mente per tutti noi.<Nell’ultima seduta prima delle vacanze, l’analista ha appena ricevuto una telefonata che lo rattrista.
Il paziente, che da tempo sta trattando temi dolorosi in analisi, appare particolarmente querulo in seduta, in modo stonato.
L’analista si trova ad un bivio: concentrarsi su una dinamica di negazione da parte del paziente (dei suoi dolori in ultima seduta), o chiedere al paziente se l’intonazione garrula ha a che fare in qualche modo con la seduta in corso.
Il paziente sollecitato, ignaro a sua volta della dinamica interattiva, avverte solo ora di aver l’intenzione di far sorridere l’analista: dato che il suo viso gli è sembrato impercettibilmente preoccupato>.
Come pensare che in questo scambio ininterrotto di influenze reciproche, di contatti subliminali, dove l’essenziale emotivo non sfugge alla sensibilità del paziente, non prendano il via interventi terapeutici fuori dal canone interpretativo, che si intonano con lo stato della relazione del momento?
‘Atti’ che intrecciano la personalità del paziente e quella dell’analista e comunicano significati sia a livello consapevole che a livello subliminale.
-In terzo luogo, per come la personalità dell’analista è sollecitata e risuona col carattere di uno specifico paziente, nei momenti diversi della propria vita.
Un paziente, recentemente provato da un lutto familiare, dice all’analista:
< L’ho vista triste, oggi; un pò curvo, entrando in seduta: mi son chiesta se sta bene>.
L’analista, sorpreso d’aver manifestato inconsapevolmente queste emozioni, s’accorge  presto che sono in relazione al paziente ed al suo dramma. Dopo poco commenta:
< Che strano che lei non abbia pensato la mia tristezza in connessione alla situazione che lei sta soffrendo>.
…Dopo una manciata di secondi continua:
< Forse è tanto poco abituato a sentire gli altri in accordo coi suoi stati d’animo, che le è  automatico pensare, vedendomi curvo, che io sia preso solo da dolori tutti miei! >.
Con queste mosse, l’analista ha sottolineato: che ci sono due mondi interiori, due soggettività distinte, due universi intrapsichici  in una stanza; che questi mondi interiori sono in relazione tra loro a vari livelli: percettivo, emotivo, comportamentale, intellettivo; che questo stare in relazione comporta una influenza reciproca, conscia-preconscia-inconscia, inevitabile, e più che mai opportuna; infine, che il non accorgersi di questa influenza reciproca è da mettere in conto a scotomi psichici della coppia, attivati da abiti mentali storicamente e caratterialmente deformati e deformanti: una distorsione di transfert.
Dunque l’analista entra in analisi col proprio corredo genetico, col proprio equipaggiamento esperienziale, personale, col proprio umore del momento, e si incontra con la bardatura esistenziale del paziente, reagendo, agendo, modificando e modificandosi, generando un particolare campo magnetico intersoggettivo.
Un analista che abbia un fondo introverso, al di là di ogni analisi personale e didattica, sarà un analista diverso da quello energetico, votato all’estroversione, e da quello composto, ‘modello inglese’, trattenuto nell’espressione delle emozioni. Tutti caratteri di base(simili allo ‘sfondo’ di K. Sneider 1960), che, per quanto analizzati e modulati, screziano la tessitura esistenziale e si trasmettono ‘col latte in analisi’: in quel processo nutrizionale, in buona parte implicito, inconscio, che è il rapporto analitico con l’altro. Diverso è il processo terapeutico, se un analista introverso incontra un paziente depresso, o ipomaniacale: diversa è la sua risonanza, la sollecitazione del suo carattere, la capacità identificatoria con le sfumature dell’altro, o l’intolleranza inconscia verso qualcosa di alieno. La questione radicale diventa un’altra rispetto a quella della preservazione della neutralità dall’ingerenza della soggettività dell’analista.
Dovremo piuttosto articolarla in questi termini:
<< Che fare della personalità dell’analista che entra sempre in gioco, consciamente o inconsciamente, sapendo che che il paziente registra le sfumature della sua personalità in seduta(Gill) e si organizza di riflesso(Hoffman)?>>.
Come usarla terapeuticamente?
Non basta stare in silenzio; non basta rimandare la palla al paziente; e non basta farsi scudo dell’attività di interprete, di esperto della tecnica, per far tacere la personalità di base dell’analista. Questa parla dai gesti, dai toni, dalle scelte tattiche, dalle parole usate, dai rumori, dagli odori dello studio, dagli affetti che l’analista si porta dentro e che trasforma in arredi (si pensi alla già citata selva di statuette dello Studio di Freud e alla nudità dello Studio kleiniano).
E dunque come usare la personalità dell’analista, quando non si voglia esiliarla?
L’uso modulato della propria inclinazione caratterologica, invece, tenta di utilizzare al meglio il fondo personale dell’analista sollecitato dalla relazione col paziente.
-Bisogna dare per scontato l’effettualità del proprio carattere nella relazione analitica.
-Mettersi in ascolto dello ‘stile’ personale di lavoro col paziente, consente di districare il proprio contributo caratterolgico all’analisi: esplorare gli incroci dei fili di diverso colore negli snodi della relazione analitica.
-Guardando alla propria soggettività, ai propri umori quotidiani, prima dell’incontro e nell’incontro col paziente, è più agevole comprendere la punteggiatura degli scambi emotivi in corso, nel fraseggio delle comunicazioni.
Un breve esempio di clinica quotidiana. Un caro amico sta molto male. L’ultima telefonata angosciosa precede la seduta. Me lo porto nel cuore, non ci sono santi. Filippo il paziente mi parla delle sue angosce ipocondriache devastanti, che lo spingono a rinunciare alla vita. Dubito di avergli trasmesso qualcosa del mio stato d’animo. Porta un sogno: uno stagno, un brutto anatroccolo , un cigno. In mezzo uno strano uccello, informe, destinato perennemente alla deformità: non c’è futuro, fissato nella scala genealogica. Ovviamente si rispecchia in questo strano essere, sospeso tra la vita e la morte, impotente. Credo che Filippo abbia fotografato la mia rappresentazione inconscia del mio amico, e l’articolazione del mio dolore. Gli parlo delle angosce dello strano uccello nè carne nè pesce, nè vivo nè morto; sottolineo insieme la sua capacità sottile di contattare quasi fotograficamente i sentimenti dell’altro e di cogliere il mio dolore in seduta. E’ capace di entrare in contatto, un contatto che spesso lo fa star male, lo fa sentire impotente(come anch’io mi sento impotente verso l’amico). Da lì, nella sofferenza, si apre uno spiraglio di ricordi familiari.
Usare la propria personalità non significa solamente amministrare con avvedutezza le punte aspre e taglienti del carattere: significa anche e soprattutto aprire le porte ai propri talenti operativi. Dove neutralità e astinenza, come sordina del carattere, smorzano i toni dei propri difetti, occludono anche i canali della propria creatività.
Gli esempi estremi hanno la caratteristica di rischiarare anche i lati piu’ quotidiani del problema.
Può essere di qualche utilità, in questo senso, fare riferimento all’analista di pazienti psicotici. Credo che debba avere delle frecce peculiari nella propria personalità: penso soprattutto alla capacità di interagire creativamente con le proprie parti psicotiche, una fluidità che gli consente di connettersi anche con quelle del paziente. Un aspetto particolare della sua personalità gli rende possible quel balzo vertiginoso nella comprensione dell’esperienza psicotica, che lo rende unico nel suo genere.
Non è certo una questione di specializzazione per tipi psicopatologici. Piuttosto è il segno che la psicoanalisi, a differenza delle altre branche mediche, non possiede una tecnica disincarnata dall’operatore, una sorta di strumentario chirurgico, radiologico, laboratoristico: ma che il primo fattore ‘tecnico’ è proprio la personalità dell’analista.
Se l’esempio dell’analisi degli psicotici poteva un tempo indicare un’isola di gravità circoscritta, una landa estrema, oggi i confini dell’ ’area psicotica’ si sono estesi epistemologicamente. Ci confrontiamo con parti psicotiche, aree dissociate e del sè, in analisi relativamente usuali. Capita spesso che queste aree non integrate facciano una comparsa improvvisa e imprimano una torsione inaspettata alla relazione.
Ogni presa in carico di un paziente difficile rimane un mistero: può comportare momenti molto conflittuali da gestire, una tensione notevole delle capacità operative dell’analista stesso, difficoltà per il paziente e spesso la necessità della richiesta d’aiuto ad un collega supervisore.
Ogni analista, quando inizia un’analisi, scremati i casi di incompatibilità manifesta, si assume il rischio di un’avventura che gli riserberà molte incognite, altrettante sorprese. A questo punto la sua personalità sarà chiamata in causa non solo per prevenire cadute del profilo terapeutico, ma anche per spremere le potenzialità creative che traghettino la coppia fuori dall’impasse.
Anche in condizione di attenzione sospesa, la mente dell’analista vaga ed è esposta alle situazioni emotive come una carta assorbente: vaga per i percorsi del paziente, ma vaga anche per sentieri personali. La sospensione del giudizio, diluisce il controllo della mente, e la personalità dell’analista fa capolino più disinvolta nelle associazioni, mai veramente libere perchè si intrecciano con quelle del paziente. Quando la coscienza dell’analista si muove un gradino al di sotto dello stato di vigilanza, gli aspetti inconsci della sua personalità, sono immediatamente convocati nella relazione analitica.
Freud, negli scritti tecnici sulle psicosi, dal 23 al 38, descrisse una parabola concettuale molto interessante. Partì dalla netta distinzione tra psicosi e normalità e arrivò all’estemità opposta, a riconoscere una grande affinità tra le due esperienze del mondo: riconobbe la stretta affinità tra associazioni libere e delirio.
Nell’ultimo scritto, quello del 38, Costruzioni in analisi, riprendendo questa affinità intima, offrì l’idea impareggiabile che il fondo della personalità inconscia, il senso di indefinitezza inconscio che si esprime nelle libere associazioni, nell’attenzione sospesa e, diremmo oggi, nella costruzione narratologica della verità, è strettamente contiguo all’esperienza delirante: e viceversa. Tributari del pensiero del processo primario.
Come dire che ‘per stare alla larga dai confini sfumati e incerti del delirio’, si dovrebbe rinunciare alla creatività del fondo inconscio della personalità. E, viceversa, per essere veramente fecondi, adatti a modificare gli schematismi relazionali inconsci del paziente, bisogna aver il coraggio di lasciarsi andare alle maree intuitive del proprio inconscio, prima di emergerne.
L’atteggiamento cautelare, coscienzialistico, asettico, sostanzialmente moralistico, rappresenta proprio quello che Freud aveva cercato di scardinare in tutta una vita. Proprio l’essenza della sua rivoluzione ‘inconscia’ della mente.