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ARTICOLO – Ansia e depressione perinatali: l'impatto sulla relazione madre e bambino e l'intervento terapeutico con l'aiuto del video*

Ansia e depressione perinatali: l’impatto sulla relazione madre e bambino e l’intervento terapeutico con l’aiuto del video*
*Articolo originariamente pubblicato sulla Rivista Comunicare della Fondazione e del Centro Benedetta D’Intino  ONLUS, n. 1, 1/2018 www.benedettadintino.it

Ferro Valentino (1), Parodi Cinzia (2), Barlocco Anna (2), Valenti Vittorio (2), Riva Crugnola Cristina (3)
1 Università Sigmund Freud University di Milano 2 Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Asl2 di Savona 3 Università degli Studi di Milano-Bicocca

 

  1. La crisi della maternità

Il divenire madri è un momento di centrale importanza nella vita della donna, caratterizzato da potenziale felicità e al tempo stesso potenziale vulnerabilità. La transizione alla maternità è definibile come una crisi evolutiva o una terza fase di separazione e individuazione, dopo l’infanzia e l’adolescenza. Nella maggior parte dei casi questa crisi ha un esito positivo, è superata ed è l’occasione per una trasformazione maturativa della donna. Quando questa crisi maturativa non è superata si può assistere allo svilupparsi dei quadri psicopatologici della maternità, chepossono esordire per la prima volta in questo periodo o rappresentare una ricaduta di una condizione psichiatrica precedente (Bydlowsky, 2000, Nanzer et al., 2012).

Le principali psicopatologie che possono presentarsi nel periodo perinatale sono: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, alto stress parentale, uso e abuso di sostanze, psicosi puerperale e disturbi psicotici e disturbi del comportamento alimentare (Paschetta et al., 2014).

Nella categoria dei disturbi dell’umore nella transizione alla maternità vi sono la depressione perinatale, il disturbo bipolare dell’umore e il maternity blues. Quest’ultimo, chiamato anche baby blues, è definibile come uno sbalzo dell’umore che si manifesta nei giorni successivi al parto ed è caratterizzato da tristezza e crisi di pianto (Zonana & Gorman, 2005). L’incidenza è alta perché oscilla tra il 50 e 80%, ma la remissione è quasi sempre spontanea, aiutata dal supporto emotivo/affettivo familiare, e questo stato emotivo non influenza la relazione madre e bambino. Una percentuale minore di donne può sviluppare una depressione pre o post-partum, all’incirca fra il 10 e il 33 % (Berle, 2012; O’Hara, 1994), questa aumenta in base ai fattori cumulativi di rischio. Un ulteriore disturbo psichico che riguarda la transizione alla maternità è rappresentato dal disturbo bipolare in epoca perinatale, che può essere caratterizzato da episodi manicali nel disturbo bipolare di tipo I ed episodi ipomanicali e depressivi nel caso del disturbo bipolare di tipo II. La gravidanza e il post-partum possono rappresentare sia un momento di ricaduta per un disturbo bipolare sia l’esordio, che solitamente avviene nelle prime due settimane dalla nascita del bambino (Munk-Olsen et al., 2012). Inoltre, quando il disturbo bipolare in una donna nel periodo perinatale non è riconosciuto o trattato come una depressione, soprattutto se vengono prescritti erroneamente degli antidepressivi, vi è il rischio di poter sviluppare velocemente una psicosi puerperale, che in alcuni casi può sfociare in comportamenti suicidari, spesso a due madre e bambino, o infanticidi (Sharma, 2008; Sharma et al., 2009).

Durante la gravidanza e il post-partum possono manifestarsi anche disturbi d’ansia di differente tipologia e spesso in comorbidità con la sintomatologia depressiva (Keleher et al., 2012). La loro incidenza è variabile e in epoca perinatale oscilla tra il 4,5 e il 15% (Kim et al., 2006).

La schizofrenia e la psicosi puerperale sono i disturbi dello spettro psicotico principali nell’epoca perinatale. Per le pazienti schizofreniche vi è un rischio di ricaduta nei primi 3 mesi di post-partum pari al 25% (Seeman, 2012) e questa percentuale può incrementarsi a causa di una brusca sospensione dei farmaci; invece la psicosi puerperale è un evento raro con un’ incidenza di 1-4 casi ogni 1000 donne (Doucet et al., 2009). La sintomatologia di quest’ultima include: allucinazioni, deliri, irritabilità, labilità emotiva, rapide oscillazioni dell’umore e confusione mentale. Inoltre, si presentano anche sintomi maniacali come: eccessiva energia, incapacità a smettere di compiere azioni, circospezione, irrazionalità e preoccupazioni per dettagli insignificanti. I principali fattori di rischio sono rappresentati da aver avuto o avere una familiarità con un disturbo dello spettro psicotico o un disturbo bipolare dell’umore (Chaudron & Pies, 2003). Non vi è ancora un consenso generale rispetto all’intervallo di tempo dal parto da considerarsi idoneo per lo sviluppo della psicosi puerperale, alcuni autori ritengono che il limite sia 6 mesi dal parto (Arentsen, 1968; Paffenbarger, 1964) e altri sostengono che possa insorgere entro 2-3 settimane (Brockington, 1996). La ricerca evidenzia tuttavia come le donne che hanno un crollo psicotico a maggiore distanza dal parto, abbiano una migliore prognosi rispetto a quelle che lo sviluppano nelle prime settimane (Videbech & Gouliaev, 1995). Più in generale le donne che sviluppano questo disturbo possono avere idee deliranti associate al bambino, tra le quali la convinzione che qualcheduno lo abbia ucciso, lo voglia rapire o gli voglia fare del male o che il latte materno sia avvelenato (Chandra et al., 2006).

Durante il periodo perinatale alcune donne possono soffrire di disturbi da uso di sostanze, che si possono manifestare per la prima volta o rappresentare più frequentemente una recidiva. Le sostanze usate maggiormente da donne in età fertile sono l’alcol e il tabacco, seguite da altre sostanze tra cui soprattutto le metanfetamine. L’utilizzo di sostanze durante la gravidanza può causare disturbi neuro-comportamentali al bambino ed essere associato a una maggiore comorbidità psichiatrica nelle madri (Oei et al., 2012). Un’altra categoria di disturbi psichici che nel periodo perinatale possono essere pericolosi per la salute della madre e del bambino sono quelli del comportamento alimentare, che devono essere investigati e necessitano interventi tempestivi. Questi disturbi hanno un’alta comorbidità psichiatrica e al momento la poca letteratura in merito ha stimato un’incidenza in gravidanza pari al 0,6%, mentre le percentuali aumentano al 17% per quanto riguarda il comportamento del binge eating(abbuffate di cibo) (Soares et al., 2009).

L’evento parto può essere anche potenzialmente traumatico per la donna, soprattutto in alcuni casi definiti a rischio, tra i quali quando risulta essere doloroso o difficile da dover ricorrere a un parto cesareo (Ryding et al., 1997), quando ci sono problemi legati alla salute del bambino (De Mier et al., 1996), quando i bambini dopo la nascita sono tolti d’urgenza alla madre per essere ricoverati in terapia intensiva (Farley et al., 2007), nei casi di nascita prematura (Lyons, 1998) e se la madre ha disturbi psichiatrici che rendono l’esperienza ancora più difficile e faticosa (Czarnocka & Slade, 2000). Nonostante questi casi limite, anche donne in buono stato di salute psichica e fisica e con il bambino sano possono vivere l’evento parto come traumatico, come un’esperienza emotiva così intensa da poter causare un disturbo post-traumatico da stress post-natale (PTSD post-natale). In questo disturbo che può caratterizzare le prime 6 settimane dopo il parto, la donna ha una percezione di sé come vulnerabile, della realtà come imprevedibile e degli altri come inaffidabili, soprattutto sperimenta la sensazione di aver subito il parto e di non aver avuto alcuno spazio decisionale nel processo ma di essere stati passiva o addirittura vittima dei medici (Di Blasio et al., 2008). La sintomatologia è simile al PTSD sviluppato in altri momenti della vita, ma ha come evento patogeno scatenante la percezione soggettiva traumatica del parto; se questo disturbo non è riconosciuto tempestivamente può aggravarsi e portare a depressione post-partum, evitamento delle cure mediche, paura di parti futuri (tocofobia), disturbi nella relazione con il partner e soprattutto con il bambino (Ayers, 2004). Vi è una forte comorbidità fra depressione post-partum e PTSD post-natale (Leeds & Hargreaves, 2008) e i sintomi di quest’ultimo possono influenzare negativamente l’instaurarsi del legame di attaccamento con il bambino perché causano comportamenti di evitamento e rifiuto da parte della madre (Ayers et al., 2006).

 

  1. La depressione e l’ansia perinatali

Secondo la letteratura internazionale, le donne soffrono di depressione maggiormente fra i venti e i trent’anni e questo periodo coincide in larga misura con la potenziale nascita di figli (Weissman et al., 1997). L’incidenza di un episodio depressivo nel periodo perinatale è compresa fra il 10-33%  (Ban & Santorius, 2012; O’Hara & McCabe, 2013) e in questo periodo vi è un rischio maggiore di sviluppare episodi depressivi rispetto a qualsiasi altro momento nella vita di una donna (Ross & Dennis, 2009).

Tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 la depressione post-partum era ritenuta un fenomeno esclusivamente occidentale, così si diffuse l’ipotesi secondo cui la depressione nelle madri fosse un fatto meramente culturale connesso al venir meno di una struttura sociale di sostegno alla madre (Caretti et al., 2013; Cox, 1996). Negli ultimi decenni differenti ricerche hanno trovato dati empirici che sostengono il contrario, dimostrando come l’insorgere della depressione sia associato alla nascita di un figlio in molti paesi di culture differenti. Se le statistiche riportano che, almeno una donna su dieci (10%), va incontro ad un disturbo di tipo depressivo durante la gravidanza e nel corso del primo anno di vita del figlio nei paesi occidentali, tassi ancora più elevati d’incidenza sono stati riscontrati in aree urbane socialmente e culturalmente deprivate quali i contesti sudafricani (34,7%), pakistani (28%), indiani (23%) e vietnamiti (32,8%) (Cox & Holden, 2008). Affonso (2000) ha rilevato i sintomi depressivi, a 4-6 settimane e a 10-12 settimane dopo il parto, attraverso l’uso dell’Edinburgh Postnatal Depression Scale (EPDS) e della Beck Depression Inventory Scale(BDI) in altri paesi e le percentuali maggiori di depressione sono state rilevate in Guyana e Taiwan. Alla luce della letteratura si può riscontrare dunque come la depressione post-partum sia diffusa anche in paesi non occidentali.

Alcuni studi si sono occupati invece di rilevare i paesi in cui la frequenza di rischio depressivo dopo il parto è ridotta, tra questi vi sono: Malta (Felice, 1998), la Svezia dove l’assistenza alla madre è effettuata preventivamente e accuratamente (Wickberg e Hwang, 1997) e quelle culture, come Giappone e Malesia, in cui i ruoli genitoriali sono ben definiti (Kit et al., 1997)

La depressione post-partum ha un quadro sintomatologico in parte sovrapponibile all’episodio depressivo maggiore descritto nel DSM, perché i sintomi più comuni sono: umore depresso, agitazione, difficoltà a concentrarsi, ansia, pianto eccessivo, perdita di interessi disturbi del sonno e dell’alimentazione, stanchezza, svalorizzazione e idee suicidarie (Beeber, 2002; Bernstein et al., 2008, Chan & Levy, 2004). Si aggiungono a questi sintomi quelli centrati sulla fase specifica di acquisizione del ruolo materno, tra i quali senso di vergogna e disperazione per le difficoltà nella relazione con il bambino, senso di inadeguatezza, paura di fare male al bambino o che lui possa farlo alla madre, ansie e paure non legate alla realtà rispetto alla salute del bambino e in casi rari ed estremi pensieri di commettere un infanticidio (Cooper & Murray, 1995; Nonacs, 2005; Raphael-Leff, 2014). Le preoccupazioni per la propria salute possono sfociare in disturbi somatici e non è raro che queste donne accusino repentini mal di testa e difficoltà nell’alimentazione. Si associano a questa condizione anche forme di sonno discontinuo e disturbato che possono condurre a disturbi del sonno veri e propri e anche a difficoltà nella vita di coppia (Cox & Holden, 2008). La depressione post-partum si associa spesso a stati di intensa ansia, che possono anche interferire sul comportamento sociale, a tal punto da poter sviluppare fobie sociali, agorafobie e diversi disturbi d’ansia (Murray et al., 2007). Un episodio depressivo nel post-partum dura alcuni mesi e nelle forme più gravi si può protrarre fino a due anni, il decorso è variabile e legato alla storia di vita della donna.

L’insorgenza di questa psicopatologia risulta essere influenzata da differenti fattori di rischio, tra i quali: le componenti biologiche, caratteristiche psicologiche, la storia di vita della persona, l’ambiente relazionale e sociale in cui vive, scarso supporto sociale da parte del partner, complicanze durante il parto, nascita del bambino pretermine e il parto cesareo d’urgenza (Milgrom et al., 2008). Questo periodo è influenzato anche da variazioni biologiche nel corpo della donna, come quelle dell’estradiolo, del progesterone, della prolattina, cortisolo e di alcuni ormoni tiroidei (estrogeni). Le variazioni agiscono a livello cerebrale e possono interferire sui meccanismi dei neurotrasmettitori coinvolti nel disturbo depressivo influenzando il manifestarsi dei sintomi depressivi. Nonostante ciò, la maggior parte delle donne può subire cambi ormonali nel periodo postnatale, ma non tutte sviluppano una depressione, questo dimostra come si tratti di una psicopatologia eterogenea, complessa e influenzata da diversi fattori eziopatogenetici (Goodman & Gotlib, 1999).

Nell’esacerbazione della depressione post-partum sono anche importanti i conflitti fra le aspettative sociali e culturali legate alla maternità e le esperienze reali. Spesso le donne si trovano in contesti sociali che negano le difficoltà emotive legate alla transizione alla maternità e la conseguente richiesta di aiuto. Guedeney si è occupato di questo tema e ha coniato il termine “paradosso della madre depressa”, per sottolineare quelle situazioni in cui la neo-madre non pensa di avere il diritto di essere infelice e/o triste durante il periodo perinatale (Gudeney, 1989). Queste donne non ritengono di avere il diritto di sentirsi tristi, infelici, depresse, in un momento in cui si sente il dovere di essere felici e realizzate; così la nascita di un figlio per loro diviene un compito troppo gravoso e non trovano quello spazio necessario per richiedere aiuto. Se la depressione è riconosciuta allora la giustificazione sarà di tipo morale, e non psicopatologica, e queste donne avranno una rappresentazione di loro stesse come di cattive madri per i loro bambini (Gudeney, 1993). Questa situazione può portare la donna ad avere grandi difficoltà a richiedere aiuto e il ritardo con cui è intrapreso un percorso terapeutico adeguato è associato ad un aumentare della gravità dei sintomi della depressione post-partum e a una difficoltà nell’instaurare una relazione con il proprio bambino.

Durante la transizione alla maternità si possono sviluppare stati depressivi anche in gravidanza e alcuni autori sottolineano la continuità della depressione fra gravidanza e post-partum e parlano più in generale di depressione perinatale per sottolineare come la sofferenza psichica di queste donne non dipenda in sé dall’evento parto (Caretti et al., 2013). La gravidanza è un momento di vita per la donna stressante e in questi mesi si possono sviluppare disagi emozionali anche intensi, la sintomatologia depressiva in questo periodo risulta essere uno dei maggiori fattori di rischio per sviluppare una depressione post-partum e due terzi delle donne che hanno sofferto di depressione durante la gravidanza ne continuano a soffrire nei primi mesi di vita del bambino (Nemeroff, 2008). La depressione in gravidanza sembra essere contraddistinta da sintomi quali: scarsa energia, sentimenti di autosvalutazione ed inadeguatezza, ansie e paure per la salute del feto, ritiro psicologico e percezione di scarso supporto sociale. I disagi psichici durante la gravidanza sono influenzati dalla riorganizzazione dell’identità della donna che inizia ad includere il nuovo “essere madre”. Ci possono essere difficoltà ad elaborare lutti o situazioni traumatiche che caratterizzano momenti di vita precedenti e si possono riattivare vissuti di perdita riguardanti la propria vita, il rapporto con i genitori o altri significativi. L’elaborazione del “divenire madre” inizia ben prima del parto, ovvero in gravidanza e probabilmente è un processo che si sviluppa durante tutto l’arco della vita di una donna. Racamier (1961) identificava questo processo con il neologismo “maternalità” (in francese maternalité), per identificare lo sviluppo affettivo e psichico della donna e differenziarlo da quello più propriamente biologico; questa nuova parola fa riferimento al percorso di nascita del senso materno, che può iniziare già in adolescenza (Ferro & Ferro, 2012).

Una donna durante la gravidanza e nei primi mesi di post-partum ha differenti preoccupazioni e ansie che sono funzionali ad aumentare l’attenzione in queste fasi. Durante la “preoccupazione materna primaria” (Winnicott, 1956) la madre vive intense apprensioni, che però l’aiutano ad accrescere l’abilità materna a leggere i segnali del bambino e rispondere adeguatamente ai suoi bisogni. Nel periodo perinatale l’ansia materna ha un significato fisiologico, evolutivo, adattivo e serve per aiutare la donna a sintonizzarsi nei confronti prima del feto e poi del bambino. Tuttavia quando i livelli di ansia diventano eccessivi al punto di bloccare o alterare l’acquisizione del ruolo materno e causano sofferenza psichica nella donna, c’è la possibilità che si sviluppi una psicopatologia ansiosa (Matthey et al., 2003).

Non è facile identificare l’ansia perinatale a causa dell’alta comorbidità con altre psicopatologie, della sovrapposizione di sintomi fisici e psichici propri della gravidanza con manifestazione psicopatologiche proprie del disturbo (Austin et al., 2010). I disturbi d’ansia nel periodo gestazionale e nel post-partum possono riattivarsi o svilupparsi per la prima volta e  quelli che sono stati maggiormente studiati in questo arco temporale specifico sono: il disturbo da attacchi di panico, il disturbo da ansia generalizzata, il disturbo ossessivo compulsivo e la fobia sociale (Reck et al., 2008).

Sono state identificate alcune ansie specifiche che possono esordire e influenzare negativamente la gravidanza (Pregnancy Specific Anxiety, PSA) e si configurano come un quadro clinico peculiare definito da: ansie legate ai cambiamenti fisici, paure legate alla salute del feto, preoccupazioni rispetto ai cambiamenti nella vita dati dal divenire madri e intense paure rispetto al dolore che si può provare durante il parto (Huizink et al., 2002). Inoltre, vi sono anche paure e ansie connesse all’acquisizione del nuovo ruolo sociale dell’essere madre, nelle donne primipare, e alle aspettative negative sulla maternità come il terrore di essere un genitore incompetente. Durante il periodo perinatale sono state identificate numerose ansie specifiche, fra cui la paura per un’anormalità del feto, paura della morte del feto, che si può anche manifestare con un’eccessiva preoccupazione per i movimenti fetali. La donna può avere anche paure legate all’essere abbandonata e non supportata nell’allevamento del bambino. Più in generale le ansie maggiormente frequenti di una donna durante il periodo perinatale sono quelle relative alla salute e sicurezza propria e del bambino, come per esempio la morte in culla, e gli eccessivi timori relativi alle critiche di altri sul proprio ruolo di madre.

Dunque, si può notare come nelle donne possa esistere un’ansia patologica specifica del periodo perinatale e la sua incidenza durante la gravidanza è fra il 15 e il 23% (Grant et al.,2008). Inoltre, l’ansia in gravidanza può determinare complicazioni al momento del parto, condizionare negativamente il funzionamento neurocomportamentale del feto, rendere difficoltoso l’allattamento al seno, influenzare lo sviluppo di tratti temperamentali difficili nei bambini e disturbi comportamentali e affettivi durante l’infanzia (Barker et al., 2011; Grussu & Bramante, 2016).

Alcune ricerche hanno messo in luce come vi sia una continuità di ansia patologica fra pre e post parto, ma dopo il parto il livello di ansia clinica tenda a decrescere, dai livelli più alti del terzo trimestre di gravidanza del 29% si passa al 16% che caratterizza il periodo del post-partum (Rubertsson et al., 2014). In un studio è stato riscontrato come si passi da livelli di incidenza del 18.2% del terzo trimestre di gravidanza al 4.7% nelle donne a tre mesi di post-partum (Figueiredo & Conde, 2011).L’ansia patologica durante tutto il periodo perinatale si presenta spesso in comorbidità con la sintomatologia depressiva e l’ansia clinica in gravidanza predice in modo significativo l’insorgenza di una depressione post-partum (Reck et al., 2008).

  1. Lo sviluppo socio-emotivo del bambino a contatto con la sofferenza mentale materna

Le cure genitoriali facilitano e sostengono lo sviluppo e l’acquisizione di numerose capacità del bambino, innate e non, come: la regolazione emotiva, il processamento dell’informazione simbolica, le capacità comunicative non verbali e verbali e lo stare con gli altri. Nelle situazioni in cui la relazione madre e bambino sia inadeguata, essa costituisce un fattore di rischio importante per lo sviluppo socio-emotivo del bambino e per la salute psichica dello stesso genitore (Murray & Cooper, 1996).

Il caregiver nella relazione con il neonato gli fornisce i segnali necessari per espandere la complessità e la coesione del suo stato di coscienza; per la creazione di un sistema diadico è necessario che genitore e bambino apprendano dai rispettivi stati di coscienza (Gianino & Tronick, 1988). In caso contrario la creazione di uno stato diadico che appartenga ad ognuno di loro non è possibile, genitore e bambino rimangono così separati e non coordinati.

In modo particolare quando una madre è depressa vi è una grande difficoltà a creare e sviluppare un sistema diadico madre-bambino coordinato e sintonizzato, il neonato è deprivato dell’esperienza di espandere i propri stati di coscienza in collaborazione con la madre (Tronick, 2008). L’esperienza di questi bambini figli di madri depresse sarà così limitata e adotteranno schemi autoregolatori rigidi che comprometteranno il loro sviluppo socio-emotivo. Il bambino di una donna depressa può avere un’esperienza di espansione diadica di coscienza prendendo su di sé alcuni degli stati mentali della madre, che molto probabilmente sono caratterizzati da tristezza, ostilità, isolamento, senso di inadeguatezza e distacco (Tronick & Field, 1987; Tronick & Gianino, 1980). In questo modo il bambino incorpora uno stato di coscienza che simula lo stato depressivo materno, dunque quando la regolazione diadica è caratterizzata da ripetuti scambi interattivi negativi e non riparabili lo sviluppo stesso può essere compromesso (Tronick, 2007; Tronick & Reck, 2009).

Lo stato emotivo depresso della neo-madre influenza il suo comportamento e la conseguente relazione con il bambino, limitandone l’espressività emotiva (Reck et al., 2011). Le madri depresse sono fisicamente presenti ma emotivamente non disponibili, risultano così meno sensibili e responsive nei confronti del bambino, sono focalizzate sulle loro paure e ansie e hanno difficoltà ad avere un contatto fisico spontaneo con il neonato e ad “entrare in contatto” con lui. La comunicazione verbale o protoverbale di queste madri con il bambino è difficoltosa, non si riescono ad inserire adeguatamente nell’alternanza dei turni, hanno poche vocalizzazioni, usano un linguaggio piatto e attribuiscono maggiori intenzioni negative al comportamento del bambino. I bambini di 9 mesi di madri depresse sono più passivi nell’interazione, hanno un tono emotivo più basso, piangono spesso e sono difficilmente consolabili; a 18 mesi le interazioni madre depressa-bambino, rispetto ai gruppi di controllo senza depressione, appaiono: carenti di scambi vocali, meno giocose e hanno una minor qualità globale. Le madri depresse sono più ansiose e i loro bambini presentano una minore condivisione affettiva e un numero maggiore di risposte affettive negative, fattori che compromettono la relazione sia nel breve e sia nel lungo termine (Reck et al., 2008; Riva Crugnola et al., 2016).

La depressione nella madre in gravidanza può influenzare il feto e sono state riscontrate conseguenze sui neonati come: una maggior tendenza al pianto, maggiore inconsolabilità, disturbi del sonno e dell’alimentazione, temperamento difficile e ritardi nello sviluppo emotivo, cognitivo e motorio. Inoltre, i figli di madri depresse a 3 mesi sono passivi e ritirati, in uno stato simil-depressivo e hanno una maggiore propensione al pianto rispetto ai gruppi di controllo, tra i 12 e i 14 mesi sono poco socievoli e impauriti nei confronti degli estranei (Murray & Cooper, 1996).

Per quanto riguarda i figli di madri con disturbo di ansia patologica, si evidenziano problemi nel regolare le emozioni e sono più irritabili rispetto ai gruppi di controllo (Huizink et al., 2002), hanno scarsa capacità attentiva, iperattività, minori abilità linguistiche e maggiori difficoltà nel sonno e nell’alimentazione (Mennes et al., 2006). Inoltre, queste madri a 4 mesi di vita del bambino hanno specifici pattern comportamentali contraddistinti da maggior contatto visivo connotato da intrusività, minori sintonizzazione emotiva, caratterizzata da comportamenti poco empatici (Beebe et al., 2011).

I figli di donne con ansia patologica hanno una ridotta responsività, scarse competenze sociali e producono minori comunicazioni positive (Murray et al., 2007); questi bambini possono sviluppare anche sintomi psicosomatici (coliche, dolori addominali cronici), sintomi associati allo sviluppo cognitivo (difficoltà scolastiche) e psicologici (tono emotivo negativo nella relazione con la madre) (Glasheen et al., 2010). Infine, la sintomatologia ansiosa influenza negativamente anche gli stili genitoriali, causando minor coinvolgimento interattivo, minor sensibilità, maggior difficoltà a sintonizzarsi con i bisogni del bambino e una maggior predominanza di comportamenti intrusivi nella relazione (Nicol-Harper et al., 2007).

  • L’intervento preventivo e terapeutico del VIDEO-FEEDBACK

Uno degli interventi terapeutici attuabile nel corso della prima infanzia è il  video-feedback, tecnica di intervento precoce e preventivo, che prevede la videoregistrazione di un momento d’interazione tra madre e bambino e, in un secondo momento, la presa visione e la discussione del filmato da parte del genitore con il supporto di un terapeuta.

Grazie a un intervento precoce sulla relazione caregiver-bambino è possibile rendere più adeguata e sintonizzata la relazione stessa, tutelare lo sviluppo socio-emotivo del bambino, prevenire l’emergere di disturbi psicopatologici nell’infante nel breve e nel lungo periodo ed evitare uno sviluppo traumatico (Ferro, 2017; Riva Crugnola, 2012). Il video-feedback aiuta il genitore ad incrementare la responsività e la sensibilità verso i segnali del proprio bambino, ovvero migliora la comprensione dei segnali e delle comunicazioni del bambino e la comprensione degli effetti delle modalità stesse del caregiver di interazione e di comunicazione verso il bambino.

Durante le sedute il genitore e il terapeuta guardano il filmato insieme e il lavoro terapeutico è incentrato sul favorire una miglior comprensione dei bisogni del bambino e degli effetti negativi che comportamenti inadeguati possono provocare su di lui. Il terapeuta aiuta il caregiver a confrontarsi anche con le discrepanze che vedendo il video emergono tra l’immagine che ha di se stesso e del proprio bambino e l’immagine che si coglie invece dal filmato; inoltre questo lavoro migliora considerevolmente l’auto-osservazione (Papoušek, 2000).

In letteratura esistono differenti tipologie di intervento con il video-feedback, ma in generale si possono dividere e categorizzare in tre macroaree, che sono:

  1. INTERVENTO COMPORTAMENTALE. L’obiettivo che si pone questo tipo d’intervento è di sensibilizzare il genitore ai segnali del bambino (McDonough, 2005; Stern, 1985); focalizzandosi sull’aiutare i genitori nel leggere i comportamenti del bambino, permettendo così di migliorare nel caregiver la consapevolezza rispetto agli effetti che i propri comportamenti interattivi possono avere all’interno della diade, rinforzando quelli positivi e riducendo, ove possibile, quelli negativi.
  2. INTERVENTO COMPORTAMENTALE INTEGRATO CON L’ANALISI DELLE RAPPRESENTAZIONI DELLE RELAZIONI DI ATTACCAMENTO DEI GENITORI. Il più comune di questi modelli è il “Video-feedback intervention to promote positive parenting and representations”(VIPP-R; Bakermans-Kranenburg, Juffer, van Ijzendoorn, 1998), che è utilizzato nel secondo semestre di vita del bambino ed è un ampliamento dell’intervento sopra presentato nel punto 1. Rispetto al precedente intervento qui si aggiunge l’utilizzo dell’Adult Attachment Interview, che consente di valutare le rappresentazioni delle esperienze infantili di attaccamento nella madre. Il focus del lavoro terapeutico in questo intervento è sull’analisi delle tematiche che caratterizzano i legami di attaccamento in quanto è solo attraverso di essi che è possibile favorire nelle madri una maggior sensibilità.
  3. INTERVENTI CHE COMBINANO VIDEO-FEEDBACK E TECNICHE DI ANALISI PSICODINAMICA. In queste tipologie di interventi la relazione caregiver-bambino è studiata e analizzata tenendo presente le proiezioni delle esperienze relazionali passate e il focus centrale è sulla rielaborazione di queste in modo più adattivo (Fraiberg, 1980; Cramer & Palacio-Espasa, 1994). In questa prospettiva assume particolare interesse il modello di intervento proposto da Beebe (2003; 2010) che combina il video-feedback con l’approccio psicanalitico; secondo l’Autrice la madre interpreterà i pensieri e i sentimenti vissuti nella relazione attuale con il figlio alla luce delle rielaborazioni che è in grado di compiere rispetto alle proprie rappresentazioni delle relazioni passate con i propri genitori. Sono previste da due a quattro sedute e si attua con diadi in cui i bambini hanno tra i 5 e i 9 mesi; in genere nel secondo anno di vita è prevista una seduta di follow-up volta a valutare, attraverso al Strange Situation, il legame di attaccamento che il bambino ha sviluppato con la madre. All’interno di questa macrocategoria ha un’importanza centrale la Video Intervention Therapy (VIT) di Downing (2007, 2008; Riva Crugnola et al., 2017), che integra approcci cognitivi-comportamentali, psicodinamici e la tecnica basata sulla mentalizzazione (MBT).

Le varie tipologie di video-feedback fin qui descritte possono essere utilizzate in contemporanea ad altri strumenti nel corso di interventi multimodali di sostegno alla genitorialità (Marvin et al., 2002).

  • L’uso del video-feedback nel progetto di intervento multifocale di sostegno alla maternità a
    rischio presso l’Ospedale San Paolo di Savona

Presso il Day Hospital di Psichiatria del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell’ASL2 di Savona, si è attivato da ottobre 2016 un intervento preventivo e terapeutico multifocale sulla maternità a rischio. Questo progetto di intervento è stato sviluppato dopo un ampio progetto di ricerca che è durato 3 anni e si è svolto in tutti i consultori e nei reparti di ostetricia e ginecologia della Provincia di Savona, che ha seguito all’incirca 150 diadi madre e bambino dalla gravidanza alla fine del primo anno di vita del bambino. Questo primo progetto di ricerca ha permesso di studiare come la depressione e l’ansia materna influenzino lo strutturarsi delle dinamiche relazionali fra madre e bambino e come lo sviluppo socio-emotivo di quest’ultimo sia influenzato dallo stato psichico della madre (Riva Crugnola et al., 2016). Il nuovo progetto di ricerca-intervento ha utilizzato questi dati per mettere in atto un intervento terapeutico tempestivo e maggiormente specifico per le madri che soffrono di ansia e depressione nel periodo perinatale.

Entrambi i progetti sono stati effettuati con la collaborazione fra ASL2 di Savona e il gruppo di ricerca coordinato dalla professoressa Riva Crugnola del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Inoltre, sono stati entrambi sostenuti e finanziati dalla Fondazione A. De Mari della Cassa di Risparmio di Savona.

L’intervento multifocale attivato a ottobre 2016 è finalizzato all’aiuto di donne in gravidanze e nel post-partum a rischio di disagi psichici, con particolare attenzione per le sindromi ansiose-depressive. Le donne a rischio sono inviate dai Consultori Familiari, dai Reparti di Ostetricia e Ginecologia (Savona e Pietra Ligure) e dai Pediatri di libera scelta.

Una donna a rischio, che inizia un percorso di cura presso questo intervento multifocale, è seguita contemporaneamente da una psichiatra, da una psicoterapeuta e da uno psicoterapeuta che lavora con il video-feedback. La psichiatra è la referente del caso clinico ed effettua la prima visita, decide inoltre se è necessaria una terapia farmacologica e in caso la monitora durante il trattamento. Il lavoro psicoterapeutico consiste in una psicoterapia breve incentrata sui temi della maternità e dei rapporti con i propri genitori e ha una frequenza settimanale. Il lavoro con il video feed-back ha una cadenza bisettimanale all’inizio della presa in carico e successivamente, se il benessere psichico della madre migliora, una volta al mese. Il video feed-back è effettuato da uno psicoterapeuta adeguatamente formato e il modello di riferimento è quella del Video Intervention Therapy VIT di Downing e collaboratori (2010). I tre terapeuti si incontrano periodicamente per discutere dei casi clinici e si effettua anche un intensi lavoro di rete con i consultori, i reparti e i servizi sociali savonesi.

Il terapeuta che effettua la VIT analizza i video delle interazioni libere di gioco della diade, effettuati precedentemente e della durata media di 10 minuti. Nell’analisi e studio dei video si utilizza il sistema di codifica del CARE-INDEX (1994) o della CIB (Feldman, 1998, 2015), ma più in generale si osservano con attenzione i seguenti pattern: espressioni facciali, espressioni vocali, la posizione corporea (organizzazione nello spazio della diade), il contatto fisico (holding e scaffolding), le espressioni di affetto positivo e negativo, il succedersi dei turni (organizzazione nel tempo diadico, proto-conversazioni), la scelta delle attività della madre, il supporto all’autonomia (per bambini dai 6 mesi), la negoziazione e limiti (per bambini dopo i 10 mesi), la collaborazione e l’effetto che ogni partner ha sull’altro.

Rispetto all’intervento di video feed-back si utilizzano alcune tecniche specifiche della VIT e altre che sono state elaborate nel corso del lavoro. Le tecniche maggiormente utilizzate durante la seduta di video feed-back possono essere riassunte in:

  1. Tecniche cognitive-comportamentali: si lavora sul linguaggio descrittivo della madre rispetto ai comportamenti del bambino, il terapeuta valida i comportamenti positivi e sensibili della madre
  2. Tecnica della Mentalizzazione: si aiuta la madre a riflettere sui comportamenti del bambino e sui propri, si cerca di far sviluppare gradualmente nella donna la capacità di “vedere” i propri comportamenti e quelli del bambino come risultanti di stati mentali e affettivi complessi (Slade, 2005).
  3. Lavoro sui punti di forza della relazione caregiverbambino: durante l’analisi dei video effettuata dal terapeuta si individuano i punti di forza principali della coppia madre-bambino e si cerca di potenziarli e consolidarli (Stern 1995)
  4. Tecnica della Simulazione: si cerca di aiutare la madre ad immedesimarsi nel bambino, cercando di farla parlare di cosa possa provare quest’ultimo o del perché possa aver fatto un comportamento
  5. Fare collegamenti fra quello che si vede nel video e la vita più in generale dei pazienti: nell’esplorazione degli affetti e delle emozioni che la visione e il lavoro sul video suscita nella madre, si cerca di fare collegamenti e generalizzazioni con la vita della donna e successivamente si torna al video
  6. Osservazioni micro-analitiche: aiutano a rendere consapevoli di “cose” che non si vedono, con la visione rallentata (momento per momento) di alcuni scambi significativi della diade il terapeuta può sottolineare pattern adattivi o disadattivi
  7. Promozione e sostegno di nuovi comportamenti e pensieri: il nostro lavoro con il video è molto supportivo e in ogni seduta si cerca di sottolineare e sostenere i nuovi comportamenti e pensieri della madre, per incrementare l’autostima e aiutarla a sviluppare più serenamente il suo “sentirsi madre”. Si mettono così in luce anche i principali cambiamenti che avvengono durante il percorso terapeutico
  8. Tecnica dell’eccezione positiva: utilizzata nei casi gravi, in video con interazioni madre-bambino disfunzionali. Si cerca di individuare un momento di relazione “funzionante” in modo sufficientemente adeguato e il terapeuta ne parla come se fosse la norma e rinforza questo pattern relazionale. Solitamente si adopera questa tecnica in una fase iniziale del lavoro di video feed-back con pazienti problematici con il fine di costruire l’alleanza terapeutica, necessaria per lavorare sui pattern relazionali negativi
  9. Tecnica del muoversi fra film esterno e film interno:tecnica psicodinamica che promuove il dialogo terapeutico continuo fra ciò che la madre vede nel video e ciò che “sente internamente” mentre guarda se stessa in relazione con il bambino. Questa tecnica è l’aspetto centrale del nostro modo di lavorare e favorisce l’elaborazione e la comprensione emotiva e affettiva, permette alla donna di parlare dei suoi vissuti interni, anche quelli più angoscianti, in un contesto sicuro. La madre nel percorso terapeutico può così trovare parole (contenitori) nuove per stati emotivi e affettivi caotici ed iniziare a relazionarsi con i propri conflitti e con i propri sogni non sognati (Ogden, 2008)

La seduta di VIT dura 45 minuti e prevede solitamente 6 step, che possono però essere modificati in base al paziente specifico o in base all’evolvere del dialogo terapeutico.

Nello step 1 il terapeuta fa vedere una parte del video, positiva e chiede al paziente che ne pensa e le sue osservazioni. Si discute di ciò che emerge stando però sul ciò che si è visto nel video e cercando di ridurre le generalizzazioni che all’inizio della seduta ci possono essere spesso. Nello step 2 il terapeuta mostra un altro momento positivo, è lui che parla sottolineando gli aspetti centrali funzionanti e successivamente si discute di quanto emerso. Lo step 3 si focalizza sul mostrare un pattern relazionale negativo e il terapeuta chiede alla madre che ne pensa e successivamente amplia il discorso sottolineando gli aspetti disfunzionali della relazione. In questa fase è molto importante che il terapeuta sia in grado di trovare un linguaggio condiviso con la paziente per parlare di questi pattern negativi e cerchi di farla sentire a suo agio e soprattutto non giudicata. Nella VIT si può accedere allo step 3 anche dopo diversi incontri ed è necessario che vi sia una buona alleanza terapeutica fra paziente e terapeuta. Lo step 4 è il nucleo dell’intervento, si esplorano i pattern negativi più a fondo e si vedono insieme differenti momenti del video. Si utilizzano differenti tecniche, quelle più appropriate secondo il clinico, ma è centrale il lavoro sulla mentalizzazione dei pensieri e delle emozioni del presente e del passato del caregiver. Nello step 5 si finisce di esplorare i pattern negativi mostrando nel video un cambiamento positivo del genitore in uno di questi pattern. Si cerca di fornire alla madre qualche cosa di positivo su cui “lavorare a casa”. Infine, nello step 6 si riassumere quanto analizzato nella seduta e si lascia liberamente associare la madre su quanto fatto nella seduta, chiedendo cosa ha trovato maggiormente interessante e cosa no. É un momento importante, in cui anche il terapeuta può ricevere un feed-back rispetto al proprio lavoro.

Concludendo, nel lavoro con il video feed-back si cerca di creare un nuovo spazio mentale in cui la madre possa pensare il proprio bambino e la loro relazione con l’aiuto di un terapeuta supportivo, attento e mai giudicante. Secondo gli autori di questo capitolo, il fine del lavoro della VIT e di tutti gli interventi sulla relazione madre bambino è quello di aiutare la donna a trovare il proprio modo di essere madre, perché non esiste un modo prototipico e giusto di esserlo, ma la mamma può diventare ed essere “sufficientemente buona” (Winnicott, 1974) in relazione alla fase specifica della vita in cui si trova e all’aiuto di cui può usufruire.

 

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