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ARTICOLO – "Al di là del nipotino di Freud"

Al di là del nipotino di Freud

Un excursus su pulsione di morte, masochismo primario e contatto

di Gabriele Cassullo

La vita evolutiva è […] contrassegnata da una serie di laceranti distacchi – dall’utero, dal cordone ombelicale, dal seno, dal grembo, dall’ausilio, dalla protezione, dal consiglio genitoriale – che segnano la salutare progressiva emancipazione. Ma è proprio da questi distacchi originari che discendono sia il bisogno di nuovi contatti, sia la patologica sensibilità al contatto, sia l’uso destro e avveduto del tatto (Carloni, 1984, p. 150).

 
 

Preludio

 

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Nel video musicale di Teardrop dei Massive Attack è rappresentata una situazione originaria di quiete ideale. L’iniziale colpo di cassa si fa impulso cardiaco regolare, continuo, non perturbato da alcun sobbalzo emotivo. Attorno ad esso cominciano a germogliare e avvitarsi trame armoniche, mentre le immagini mostrano un feto che fluttua nello spazio, come un astronauta dai tratti alieni. Suono e immagini interagiscono. Il feto sente il ritmo cardiaco e vi risponde con una linea melodica delicata. Canta con la bocca, gli occhi, le mani, la testa, gli arti. E’ in comunicazione con un’entità estranea, ma familiare. Si genera un lento crescendo visuo-sonoro e poco a poco la tensione giunge all’acme, lasciando presagire un avvento, una venuta. Potrebbe essere una nascita o un orgasmo. Le luci poi si abbassano e il feto torna quieto, in attesa.

In “Comunicare e non comunicare” Winnicott (1963) paragona la presenza vitale materna alla “musica delle sfere”, il suono prodotto dall’universo in cui siamo tutti continuamente immersi, ma che non possiamo più percepire. La radiazione elettromagnetica di fondo dell’universo – individuata nel 1964 dai premi Nobel per la Fisica Arno Penzias e Robert Woodrow Wilson – è attualmente chiamata Cosmic Microwave Background Radiation e si ritiene che possa contenere un residuo del Big Bang.

Il corpo materno produce certamente un insieme di suoni ritmici: il battere del cuore, l’onda del respiro, i flussi nelle viscere… . Ritmi che si intrecciano componendo un tutto organico, che può somigliare a una proto-musica. Una proto-musica che accompagna e scandisce lo sviluppo prenatale comunicando al feto, passo dopo passo, lo stato del suo essere con la madre, oltre che gli affanni fisici e le varie emozioni che la fanno palpitare.

Otto Gross

 

Il pretesto per questo mio scritto viene da una casualità. Una piccola scoperta. La scoperta del saggio di Otto Gross “On Conflict and Relationship” del 1920. I Selected Works di Otto Gross sono disponibili al lettore inglese soltanto dal 2012, quando sono stati tradotti dal tedesco e pubblicati per Mindpiece. Rimando al libro di Michelantonio Lo Russo Otto Gross. Psiche, Eros, Utopia (2011) ai fini di un inquadramento storico di questo curioso personaggio, purtroppo bandito dalla storia della psicoanalisi. In ogni caso, nel 1920 Gross osserva:

La sessualità come disposizione pulsionale, e perciò anche l’originaria sessualità del bambino, è una spinta al contatto in senso fisico e psichico. […] La “spinta verso se stessi” come protesta anti-sessuale è costituita, al contrario, dall’istinto all’auto-conservazione […]. Il senso di questa seconda pulsione può essere solo quello di una continua opposizione verso la sessualità come bisogno di contatto a ogni costo: si tratterebbe quindi di una pulsione altrettanto intensa, continuamente attiva e polarizzata in direzione contraria a quella sessuale, la quale prende la forma di una propensione ad adattarsi, a impegnarsi verso gli altri e a piegare il proprio sé. In questo modo, si installa l’elemento masochistico e la sessualità infantile si trasforma nell’impulso a offrire se stessi agli altri […]. Potremmo dire che il masochismo rappresenta il tentativo del bambino di identificarsi con la situazione passiva con cui deve necessariamente fare i conti per ottenere un minimo di contatto con l’ambiente esterno tramite la sottomissione. La spinta motivazionale che induce al masochismo, dunque, è la paura della solitudine; ma la paura della solitudine è anche un motivo di fondo che ci accompagna per tutta la vita. […] La tendenza infantile a sottomettersi allo scopo di ottenere contatto, pertanto, si ripresenta sempre. La tendenza masochistica, come ho detto, è un modo di gestire e ripetere la situazione infantile in rapporto all’adulto. In realtà, […] nella maggior parte dei casi gli esseri umani sono assai di rado soli nella vita adulta quanto lo sono stati da bambini; ma un bambino, per lo meno, può sperare di ottenere un minimo di tregua dalla solitudine, benché al prezzo della sottomissione. Per via del ricordo inconscio di tale speranza, però, si stabilisce per tutta la vita un desiderio, una tendenza verso il ritorno all’infanzia. Possiamo pertanto definire il masochismo anche come una lotta tesa a ricreare la situazione infantile dell’essere un bambino in rapporto a un adulto (Gross, 1920, pp. 288-289).

Le ripercussioni di questa linea di pensiero vengono esplorate e ampliate nell’arco dell’intero saggio, ma ciò che più mi preme sottolineare è la messa in tensione della diade solitudine–contatto, da Gross espressa anche come proprio–estraneo. In un’ottica bioniana, non proverò a risolvere questa tensione escludendo l’altro polo, ma a porre in oscillazione i due estremi, allo scopo di dare respiro e lasciare espandere il pensiero. Così fece Bion con l’analoga dicotomia narcisismo–socialismo, a sua volta amplificata nell’elaborazione di Gaburri e Ambrosiano (2003); così verrebbe da fare con altre dicotomie classiche, come regressione–progressione, processi primari–secondari, vero–falso sé, pulsionalità–relazionalità, e così via. Il gioco sarebbe sostanzialmente quello che ci ha mostrato, in quegli stessi anni, il nipotino di Freud (1920) allorché si trovava in rapporto con un rocchetto di spago: eludere per un momento la tendenza allo sviluppo lineare del pensiero, che muove da–a (dal narcisismo alla relazione oggettuale), e fare oscillare ritmicamente i due estremi. Posto che, come ci avverte Civitarese (2016), essi siano legati – e ben stretti! – a un filo.

Sandor Ferenczi e Karl Abraham

 

Una seconda piacevole scoperta. Grazie alla generosità editoriale di Glauco Carloni e di Egon Molinari, il lettore italiano condivide con il lettore ungherese l’occasione di conoscere le “Critiche e recensioni” scritte da Sandor Ferenczi e presenti nel IV volume delle Opere pubblicate da Guaraldi. Si tratta di una serie di scritti – per lo più sconosciuti a livello internazionale poiché mai apparsi in inglese – fra cui vi è una lunga recensione ai Tre saggi sul conflitto interiore di Gross, libro di cui “On Conflict and Relationship” è parte. Ferenczi scrive:

Degna di grande attenzione è la definizione del masochismo infantile come sottomissione tesa ad evitare l’angoscia derivante dall’isolamento; rispettivamente il sadismo di voler essere potente e adulto sarebbe una formazione reattiva all’umiliazione masochistica, “una struttura di compromesso che nasce dall’angoscia di fronte all’isolamento e dalla contemporanea volontà di conservarlo” (Ferenczi, 1920, pp. 108-109).

Subito dopo l’autore sottolinea: “Finora eravamo abituati a considerare il sadismo l’elemento primario-attivo e il masochismo l’elemento secondario-reattivo; ma […] la possibilità di una genesi inversa non è da respingere” (ibid.). Mentre i curatori annotano a piè di pagina: “E’ ciò che di fatto farà poi Freud col saggio Al di là del principio del piacere” (ibid.).

La possibilità che il masochismo possa essere primario rispetto al sadismo (benché secondario rispetto a qualcos’altro di non ancora ben identificato) farà molta strada nella mente di Ferenczi fino riaffiorare in una nota del 2 aprile 1931 in cui l’ungherese si imbatte ancora una volta nel problema del masochismo:

Ecco di nuovo il maledetto problema del masochismo! Da dove deriva questa capacità non solo di diventare oggettivi quanto necessario, di rinunciare o anche di morire, ma addirittura di ricavare piacere da questa distruzione? (Ovvero, non solo accettazione della sofferenza, ma ricerca della sofferenza)

1. Ricercare spontaneamente la sofferenza o sollecitarla presenta vantaggi soggettivi rispetto all’attesa, probabilmente lunga, della sofferenza e della morte. Soprattutto, sono io stesso a prescrivermi il ritmo della vita e della morte: viene dunque eliminato il motivo dell’angoscia di fronte all’ignoto. In confronto all’attesa della morte che sopraggiunge dall’esterno, il suicidio è un piacere relativo.

2. In sé, accelerare volontariamente le cose (l’uccellino che vola incontro agli artigli del rapace per affrettare la morte) deve significare una sorta di esperienza di appagamento.

3. Molte circostanze militano in favore del fatto che un tale abbandono di sé è sempre associato a un’allucinazione compensatoria (deliri di beatitudine, spostamento della sofferenza su altri, perlopiù sull’aggressore stesso, identificazione fantastica con l’aggressore, ammirazione oggettiva della potenza delle forze alle quali si soccombe; infine, invenzione di mezzi e modi per una fondata speranza in una possibilità di vendetta e di superiorità di altra natura, anche dopo la sconfitta) (Ferenczi, 1920-1932, pp. 236-237).

Siamo al cuore del pensiero di Ferenczi. Masochismo come conseguenza dell’identificazione con l’aggressore, del terrorismo della sofferenza e di una crescita traumaticamente precoce. Queste intuizioni costituiranno il perno attorno a cui ruota lo “scandaloso” scritto “Confusione di lingue fra gli adulti e il bambino”, in cui Ferenczi spiega:

La paura degli adulti privi di inibizioni – e perciò, sotto un certo punto di vista, pazzi – trasforma per così dire il bambino in psichiatra; per difendersi dal pericolo rappresentato dagli adulti privi di autocontrollo, egli deve innanzitutto sapersi identificare completamente con essi. E’ incredibile quanto possiamo effettivamente imparare dai nostri “bambini saggi”, i nevrotici. […] Oltre l’amore passionale e le punizioni passionali, gli adulti dispongono di un altro mezzo per legare a sé i bambini: il terrorismo della sofferenza. I bambini sono costretti ad appianare ogni tipo di conflitto familiare e portano sulle loro fragili spalle il peso di tutti gli altri membri della famiglia. Naturalmente non lo fanno per puro altruismo, ma per poter nuovamente godere della tranquillità perduta e della tenerezza che ne deriva. Una madre che si lamenta continuamente delle proprie sofferenze può trasformare la figlia in un’infermiera, vale a dire in un autentico sostituto della madre, senza tenere in alcun conto i veri interessi della figlia (Ferenczi, 1932, p. 99).

Spostandoci ora di lato, nella direzione di un altro acuto seguace di Freud, Karl Abraham, e provando a cercare alla voce “masochismo” nell’indice bibliografico delle sue Opere, si può trovare uno scritto del 1910 denso di osservazioni cliniche del massimo interesse e ancora non così sature di teorie cristallizzate. Fra i diversi casi di isteria che Abraham propone vi è quello di un uomo che, dopo la morte della madre, inizia ad avvertire peculiari “stati onirici”: si sente come se vivesse in un sogno. Si tratta di un paziente che chiede di essere passivamente ipnotizzato. Abraham commenta:

La subordinazione alla volontà di un altro è in linea con il suo masochismo. Dice egli stesso che il suo massimo ideale è di potersi comportare in modo totalmente passivo, che è un tormento per lui dover impegnare tutte le sue energie per continuare a vivere. La sua sessualità presenta inequivocabili tratti masochistici a iosa. Per lungo tempo si masturbò con fantasie masochistiche, finché, dopo aspre lotte, riuscì a liberarsi parzialmente dalla masturbazione (Abraham, 1910, p. 440).

L’attenzione di Abraham è attratta dalle fantasie di morte che l’uomo nutriva verso la madre prima che mancasse, desideri che erano stati “trasformati col processo di formazione reattiva in un attaccamento eccessivo di carattere assolutamente infantile” (ibid.). L’uomo aveva, fra l’altro, “la sensazione […] di essere ancora un bambino” (ibid.). Ma al momento della morte della madre, nota Abraham, “al posto delle fantasie rimosse, che un tempo si erano dirette contro la vita della madre, è […] subentrata nella coscienza la rappresentazione che la vita propria dipenda dalla vita della madre e abbia termine quando ha termine la sua. Le fantasie di morte si sono rivolte contro il paziente stesso” (ibid.). Come da manuale freudiano pre-1920, il masochismo viene fatto risalire al sadismo primario ritorto contro di sé. Ma il punto è che Abraham fa coincidere questo rivolgimento della pulsione con la morte della madre: è allora che hanno inizio i terribili attacchi di mal di testa e, insieme ad essi, gli “stati onirici”, che l’uomo stesso così descrive:

Dapprima è uno sforzo, come nel rapporto sessuale; se volessi farlo adesso dovrei sdraiarmi e lavorare. E’ la massima concentrazione sul fatto di non pensare a nulla. Chiudo gli occhi. Niente del mondo esterno deve penetrare in me. Poi viene il breve stadio della delizia, dei sentimenti di vita completamente rovesciati […]. Credo di non poter trovare parole abbastanza forti per descriverlo. Il breve stadio del piacere è però come un infinito […] Si ha l’idea che nella vita tutto si muova in avanti; voglio dire, ad esempio, la circolazione del sangue. A un tratto tutto è diverso; tutto rifluisce come se non andasse più avanti ma indietro. E’ come se si mettesse in atto una magia. Mentre di solito tutto tende a uscire dal corpo, ora tutto vi è riportato dentro. Anziché irradiare assorbo. […] Regna allora una quiete assoluta, armoniosa, una passività benefica, in contrasto con la mia vita reale. Le onde affluiscono sopra di me. Mi viene fatto qualcosa. Se questo stato non cessasse non mi muoverei fino alla fine dei miei giorni (Abraham, 1910, pp. 440-441).

Potremmo pensare al paziente come impegnato nell’elaborazione del lutto per la perdita della madre: in altalena fra sentimenti di disperazione per il proprio futuro (“Non posso rappresentarmi la realtà se non sono a fianco a fianco con lei”; p. 439) e regressive fantasie di ritorno a una situazione infantile di passiva dipendenza. Il masochismo di questo paziente si manifesta attraverso lo stesso tipo di regressione descritta da Barbara Low allorché ha coniato l’espressione Principio di Nirvana, poi ripreso dal Freud di Al di là del principio di piacere come pulsione di morte. Scrive infatti Low nel 1920: “E’ possibile che al di sotto del Principio di Piacere, si trovi quello che potremmo definire il Principio del Nirvana, vale a dire il desiderio del neonato di tornare a uno stato di onnipotenza; uno stato in cui non esistono desideri insoddisfatti e di cui egli godeva nel grembo materno” (Low, 1920, p. 73).

Ammesso che sia mai esistito un tale idillio, rileva Abraham, nel caso di questo paziente esso si era presto rotto, in quanto il rapporto con la madre durante l’infanzia era stato tutt’altro che scevro da lacune. Queste le parole di Abraham:

La madre soffriva di attacchi di mal di testa già da quando il paziente era bambino, e a quelli i suoi assomigliavano in modo evidente. Il mal di testa della madre coincideva sempre con le mestruazioni; per qualche giorno essa era inoltre molto sensibile ad ogni stimolo, e doveva riguardarsi con la massima cura. Anche nel paziente il mal di testa si ripeté per anni a intervalli di quattro settimane e durava ogni volta tre o quattro giorni. Durante il mal di testa egli è estremamente sensibile ad ogni stimolo, deve interrompere il lavoro e passare uno o due giorni a letto. Il paziente si identifica dunque mediante il mal di testa con la madre (Abraham, 1910, p. 441).

Sia con Ferenczi, sia con Abraham, si arriva di conseguenza – per strade diverse – a risolvere problema del masochismo intendendolo come l’esito di un’identificazione patogena con un oggetto originario deficitario. Siamo nell’ambito delle teorie traumatiche, che – come osservano i curatori del libro The Clinical Problem of Masochism (Holtzman, Kulish, 2012, p. 4sg.) – costituiscono oggi la più solida risposta al dilemma posto dal masochismo.

Se si prosegue lungo una linea interpretativa ferencziana, la coazione a ripetere può pertanto essere intesa come il tentativo di trovare una nuova e migliore soluzione al trauma originario (e.g. Borgogno, 1999, 2011). Ma come un ordine inconscio può essere sciolto solo dalla persona che lo ha impartito, il paziente continuerà a ripetere la relazione traumatica finché non troverà qualcuno (l’analista) che oltre essere disposto a ripeterlo con lui (con possibili inversioni dei ruoli, giacché ciò che è stato subito in forma masochistico-passiva può spesso essere ripetuto in forma sadico-attiva) lo aiuti ad arrivare a un’elaborazione simbolica di quanto è accaduto. Per fare ciò, tuttavia, l’analista dovrà riconoscere la parte che ha svolto nella ripetizione traumatica, non chiamandosi fuori dalla mischia inter-attiva. Solo così potrà pensare assieme al paziente “chi ha fatto cosa” e, con il tempo, slegare la diade dalla ripetizione di una dinamica sadomasochistica del tipo vittima-carnefice.

Partendo dal pensiero di Abraham (ma non solo) e dalla clinica dei pazienti difficili, anche De Masi (2007, 2012) descrive un lavoro non così dissimile sulle configurazioni sadomasochistiche di origine relazionale-traumatica. Queste configurazioni prototipiche relazionali, da intra-psichiche (un Super-io sadico e perverso, in rapporto con un Io schiacciato, svalutato, in molti modi impoverito) debbono farsi inter-psichiche nella relazione con l’analista e all’interno di essa essere sciolte, grazie alla graduale circolazione nella coppia di una maggiore ricettività e risonanza affettiva.

Il principio generale che regola l’economia del masochismo, in breve, sarebbe che per quanto doloroso il noto è meno angoscioso dell’ignoto: meglio un rapporto masochistico, anche se si sa che si dovrà soffrire, che un nuovo tipo di relazione connotata da rispetto, fiducia, pienezza e reciprocità affettiva, ma sconosciuta alla persona.

Come aveva notato Ferenczi nel citato frammento del 2 aprile 1931, l’attesa della sofferenza può essere meno auspicabile della sofferenza stessa. L’angoscia che si prova quando si è confrontati con l’ignoto può in taluni casi essere maggiore di quella che si sperimenta di fronte a una pena certa. Persino il suicidio può rappresentare un sollievo, e quindi un godimento relativo, se lo si confronta con la prospettiva dell’attesa di ciò che non si conosce. L’incertezza può essere gestita e mitigata con il pensiero: “Sono io stesso a prescrivermi il ritmo della vita e della morte” (Ferenczi, 1920-1932, p. 236). L’incertezza è ciò che va allontanato dalla nostra mente a ogni costo (Cassullo, 2016a)

Melanie Klein e Ronald Fairbairn

 

Ma da dove provengono le fantasie di morte dirette verso la madre del paziente di Abraham e da lui registrate nel 1910? Dopo lo scambio fra Ferenczi e Abraham si potrebbe, guidati da queste fantasie, muoversi in direzione di un’analizzanda di entrambi: Melanie Klein. Klein che, a giudicare dall’indice dei suoi Scritti, ha usato assai più volentieri la parola sadismo rispetto a masochismo; ma l’unica occasione a cui rimanda l’indice sembra ben riassumere il suo contributo al riguardo:

E’ mia convinzione che il senso di pericolo suscitato dall’operare interno della pulsione di morte è la causa prima e originaria dell’angoscia. E poiché la lotta tra pulsione di vita e di morte persiste per tutta la vita, questa causa di angoscia non viene mai eliminata ed è un fattore che rientra costantemente in tutte le situazioni di angoscia. La mia tesi che l’angoscia ha origine dalla paura di annientamento della vita deriva dall’esperienza accumulata con le analisi di bambini piccoli. Quando, in tali analisi, vengono rivissute e replicate le primissime situazioni d’angoscia del lattante, la forza intrinseca di pulsioni dirette in ultima istanza contro il Sé può rivelarsi con tanta potenza da escludere ogni dubbio sulla loro esistenza. Ciò resta valido anche quando teniamo nel debito conto la parte che nelle vicende delle pulsioni distruttive svolge la frustrazione interna ed esterna (Klein, 1948, p. 439).

Esiste nell’essere umano una potente propensione all’annullamento della vita, con conseguente angoscia di annichilimento, indipendentemente dal fatto che un particolare ambiente esterno o una specifica struttura psicofisica susciti ulteriori frustrazioni e distruttività. Al di là delle note critiche etologiche a questa posizione, il pensiero di Klein apre la via a un’idea feconda in linea con il fort–da del nipotino di Freud. Nella mente non può esistere il vuoto assoluto. Lo spazio lasciato vuoto dall’assenza, non necessariamente concreta, ma anche di presenza mentale, dell’oggetto originario si colma di derivati pulsionali, fantasie inconsce. Come Melanie Klein e la figlia Melitta Schmideberg scoprirono insieme agli esordi del loro percorso psicoanalitico (Cassullo, 2016b), quando ci si sente esclusi, chiusi fuori, dalla mente della madre, imperversano fantasie persecutorie che minacciano di sopraffare il sé.

Il senso di solitudine di Gross lascia così spazio al libero proliferare di angosce mortifere, di annientamento della vita. Scrive difatti Klein:

E’ mia ferma convinzione che l’angoscia è una conseguenza dell’entrata in azione della pulsione di morte nell’organismo, che essa è avvertita inizialmente come paura di annientamento (morte), e che si configura pressoché immediatamente come paura di persecuzione. La paura della pulsione distruttiva pare venga subito fissata a un oggetto, o piuttosto vissuta come paura di un oggetto superpotente e incontrollabile. Altre fonti importanti di angoscia primaria sono il trauma della nascita (angoscia di separazione) e le frustrazioni dei bisogni del corpo; e anche queste esperienze sono inizialmente sentite come se fossero determinate da oggetti. Anche se gli oggetti sono percepiti come se fossero oggetti esterni, mediante l’introiezione diventano persecutori interni e rafforzano così la paura della pulsione distruttiva operante all’interno. L’esigenza vitale di far fronte all’angoscia costringe l’Io primitivo a sviluppare meccanismi e difese di base. La pulsione distruttiva viene in parte proiettata all’esterno (deviazione della pulsione di morte) e, secondo me, fissata al primo oggetto esterno, il seno della madre. […] [Ma] l’angoscia della distruzione dall’interno rimane attiva. Sotto la pressione di questa minaccia, l’Io tende a frammentarsi (Klein, 1946, p. 413, corsivi aggiunti).

A proposito di questa frammentazione innescata da angosce di annichilimento e non-esistenza Klein rimanda il lettore a Ferenczi (p. 413n). Lei si concentra invece sui meccanismi e sulle difese di base sviluppati dall’Io primitivo per scaricare e disperdere nell’ambiente la tossicità della pulsione di morte. Oltre alla già citata proiezione, aggiunge i processi di scissione attiva che coinvolgono sia l’Io che l’oggetto, e oltre a essi anche la relazione fra l’Io e l’oggetto (p. 413); arrivando a completare così la sua elaborazione dell’identificazione proiettiva.

Trovo che, per molte ragioni, Ronald Fairbairn sia l’autore con cui più proficuamente porre in rapporto Melanie Klein perché, se da un canto il loro pensiero è spesso divergente, dall’altro le loro idee hanno esercitato molte reciproche influenze.

E’ stato Fairbairn a riportare in auge in psicoanalisi il concetto di désagrégation psichologique di Pierre Janet mediante il suo studio dei fenomeni schizoidi. Fairbairn conosceva a fondo l’opera di Janet, avendo svolto la sua tesi di laurea in Medicina, nel 1929, sulla dissociazione. Dissociation è stata difatti, già da fine Ottocento, la traduzione inglese della désagrégation janettiana. La metafora associazionista, però, non rende del tutto giustizia al potenziale immaginativo della désagrégation, la quale può anche proficuamente essere pensata, rimanendo nell’alveo del pensiero di Janet, come la disintegrazione di una mente già di per sé fragile a seguito di un urto esterno. Oppure come una specie di sgretolamento, un’erosione, una polverizzazione dello psichismo dovuti, secondo Janet, a una “congenita debolezza delle capacità di sintesi e di elaborazione emotivo-cognitiva” (Craparo, 2013, p. 514). O forse innescati dalla tendenza del vivente a ritornare all’inorganico, se seguiamo il Freud post-1920; ovvero dalla minaccia devitalizzante della pulsione di morte, come suggerito da Klein. Anche se vi è evidentemente una differenza fra il progressivo sgretolamento immaginato da Janet e i tagli scissionali autolesionistici di Klein.

Nel 1935 Fairbairn assistette alla presentazione alla British Society del primo lavoro di Klein sulla Posizione Depressiva e rimase tanto colpito da quanto sentì quanto “amareggiato per il modo in cui molti analisti sembravano trattare la visione [di Klein] non come una serie di idee da vagliare attentamente alla luce della propria esperienza analitica, ma come se si trattasse di un’eresia rispetto a un sistema di credenze religiose” (Sutherland, 1989, pp. 40-41).

Nei cinque anni successivi Fairbairn lasciò lavorare nella propria mente il pensiero di Klein (Sutherland, 1989, p. 41) e nel 1940, attingendo anche alle proprie reminiscenze janettiane, giunse a ipotizzare l’esistenza di una Posizione Schizoide della personalità, che precede sia il Complesso di Edipo sia la Posizione Depressiva (schizo: diviso, scisso). Nello scritto sui meccanismi schizoidi del 1946, a cui ho fatto riferimento poco sopra, Klein raccolse l’intuizione di Fairbairn, la combinò con la propria idea sulla Posizione Paranoide anteriore alla Posizione Depressiva e teorizzò la Posizione Schizo-Paranoide (Klein, 1946, pp. 410-411n). Ancora una volta, il fantasma di Janet faceva ritorno dal rimosso della storia della psicoanalisi (Cassullo, 2014).

Fairbairn è di grande interesse anche in quanto è stato il primo teorico ad estendere la struttura endopsichica freudiana (Es, Io, Super-io), scomponendo all’interno di essa alcune sotto-strutture. In particolare, egli riteneva che, se posto in relazione con un oggetto esterno insoddisfacente, l’Io del bambino adotti come difesa l’introiezione, per poi scindere l’oggetto in tre parti. Il nucleo centrale, ripulito dagli aspetti disturbanti, viene innalzato a ideale (“oggetto ideale”). I due oggetti disturbanti vengono invece divisi in un “oggetto eccitante” e un “oggetto rifiutante”. Tutti questi oggetti interni rientrano nell’orbita del Super-io (già indicato da Freud come l’istanza psichica cruciale per quanto riguarda il masochismo) nelle vesti di un “io libidico”, alla costante ricerca di stimoli eccitanti, un “io antilibidico” (“sabotatore interno”) connotato da distruttività, persecuzione, odio, sadismo, e in ultimo, un “io ideale” che dà origine a una “difesa morale”, strettamente collegata al masochismo (Fairbairn, 1953).

Facendo ri-confluire il lascito di Klein e Fairbairn, e proiettandolo in uno spazio analitico più attuale, nel 1994 James Grotstein e Donald Rinsley hanno pubblicato una raccolta di scritti di autori (soprattutto post-kleiniani) dedicati all’analista scozzese (Grotstein, Rinsley, 1994). Thomas Ogden in particolare descrive il modo in cui, proprio grazie agli strumenti teorici sviluppati da Fairbairn sia stato possibile superare l’immaginario uni-personale che caratterizzava concetti come il transfert, il controtransfert, l’identificazione proiettiva, per arrivare a sostituirvi l’idea di una “esternalizzazione interpersonale (‘attualizzazione’ […]) di una relazione oggettuale interna” (Ogden, 1983, p. 100). Di conseguenza, Fairbairn potrebbe essere considerato uno dei precursori della field theory, della teoria del campo analitico (Ferro, Civitarese, 2015). In effetti, interpretando i personaggi che popolano i sogni come delle personificazioni (lo stesso termine poi adottato da Sullivan e dagli interpersonali americani) delle istanze psichiche da lui teorizzate, si amplia il numero potenziale di personaggi in interazione nella mente dell’analista.

Sempre nel volume a cura di Grotstein e Rinsley, viene ristampato uno scritto nel quale Otto Kernberg si dilunga sulla ricaduta clinica delle riflessioni di Fairbairn circa il masochismo:

Nel rapporto masochistico si attua un tentativo disperato non solo di attivare la relazione fra l’Io antilibidico e l’oggetto antilibidico […], ma anche di modificare l’oggetto antilibidico e di trasformare il suo odio in amore. […] Secondo Fairbairn, il bambino si accolla la cattiveria dei suoi oggetti frustranti e persecutori […], che poi si amalgamano assumendo un ruolo nel Super-io. Spiegando l’interiorizzazione dell’oggetto cattivo, egli osserva: “è meglio essere peccatore in un mondo guidato da Dio che vivere in un mondo governato dal diavolo” […]. Parafrasando questa affermazione, […] potremmo dire che il diavolo viene interiorizzato nello sforzo di trasformarlo in un Dio irato, e successivamente condensato col Dio ideale per mantenere la speranza di una finale redenzione nel mondo di Dio. Questa è la speranza nascosta nell’attivazione […] di relazioni oggettuali masochistiche (Kernberg, 1980, p. 75).

Anna Freud e Jacques Lacan

 

Ci siamo allontanati di molto. Meglio ora orientare la prua in direzione di un ritorno a Freud; e lo si può fare zigzagando di nuovo fra due arcipelaghi che sono stati in esplicita competizione: la Psicologia dell’Io e l’insegnamento lacaniano. I quali incarnano due modi diversi di tornare a Freud: l’uno attraverso la familiarità diretta, l’altro mediante la lettera stampata della parola freudiana.

Rispetto alla Psicologia dell’Io, prenderò come riferimento Anna Freud: colei che ha garantito a questo orientamento un’omogeneità teorica, grazie al testo fondante L’Io e i meccanismi di difesa (1936), un collante logistico, essendo stata lei a tenere i rapporti fra gli emigrati mitteleuropei sparsi fra le due sponde dell’oceano che si definivano psicologi dell’Io, e una legittimità di discendenza.

Circa il masochismo, ne L’Io e i meccanismi di difesa Anna Freud riprende l’identificazione con l’aggressore ferencziana, ma la declina principalmente nella sua componente di introiezione del sadismo dell’aggressore e di ripetizione, in forma attiva, di ciò che si è dovuto subire passivamente. In questo segue pedestremente il padre, che già in Al di là del principio di piacere spiegava come la conversione nel contrario, in specie il rivolgimento del passivo in attivo, dell’amore masochistico in odio sadico, costituisca il modo in cui l’Io può padroneggiare e assimilare un’esperienza spiacevole o traumatica. Giacché il bambino ha dovuto subire l’intrusione nella bocca del cucchiaio del medico e il suo sguardo indagatore all’interno della propria gola, nel gioco egli ripete l’operazione vestendo il camice del medico e assegnando al fratellino il ruolo del bambino malato che deve farsi curare.

Credo però che sia molto più proficuo soffermarsi su un altro meccanismo di difesa preso in esame da Anna Freud: la resa altruistica. Nel 1972-73 un gruppo di ricerca concettuale condotto da Joseph Sandler (Cassullo, 2012) si incontrò per un anno con Anna Freud, nell’ultima fase della sua vita, per discutere il suo classico volume sui meccanismi di difesa. Il contenuto di quegli incontri è disponibile in L’analisi delle difese. Conversazioni con Anna Freud (Sandler, 1985).

Nel capitolo sulla resa altruistica Sandler mette in rapporto quest’ultima con il masochismo e l’angoscia di morte giacché ricorda come nella classica trattazione di Anna Freud delle difese egoiche la resa altruistica venga descritta come un modo per tenere a bada l’angoscia di morte con lo sviluppare una preoccupazione eccessiva per la sicurezza dell’oggetto d’amore. In questa maniera il nucleo mortifero della pulsione sessuale – quel collasso dell’Io che avviene durante la petite mort dell’orgasmo, come Sabina Spielrein aveva fatto notare a Freud nel 1912, e come lui ammetterà in Al di là del principio di piacere (1920, p. 240n) – viene neutralizzato, ma il desiderio pulsionale è comunque soddisfatto attraverso un godimento vicario: “Quando si trasferiscono le pulsioni su altri, le vite di questi diventano più preziose della propria” (Sandler, 1985, p. 274).

Nella conversazione con il gruppo di Sandler, Anna Freud tratteggia poi la “resa masochistica dei propri desideri in favore di altri” (Sandler, 1985, p. 284) come un altruismo non-reattivo rispetto a sentimenti ostili inconsci e un masochismo non-erotizzato, poiché non vi è godimento nella resa. Si può trattare di una persona “che aiuta gli altri a realizzare i loro progetti” (p. 285) ma che, così facendo, rinuncia a realizzare i propri. Come Cyrano de Bergerac il quale, dopo aver riconosciuto la superiorità estetica del rivale Cristiano, gli cede il passo e lo aiuta a conquistare i favori della donna che entrambi desiderano, godendo del suo successo. La componente sessuale della pulsione viene raffinata mediante un elaborato accordo fra l’Io e il Super-io, mentre la componente aggressiva ha libero sfogo, come nel caso di quei benefattori che lottano con estrema violenza per le cause altrui.

Dice Anna Freud:

Il soggetto ama il suo desiderio ma non osa soddisfarlo […]. Questa è la ragione per cui lo esteriorizza. Ma nello stesso momento esteriorizza anche un enorme bisogno che il desiderio sia soddisfatto, anche se ora è un altro a essere gratificato (p. 281).

Nel tipo di altruismo che ho descritto il soggetto cerca negli altri la presenza di desideri simili ai propri e, invece di condannarli, li soddisfa attraverso di loro. […] Il soggetto non critica il soddisfacimento sinché non vi è coinvolto direttamente; il Super-io (che è così critico, per esempio verso l’esibizionismo) dice: “Beh, per l’altra persona va benissimo, è bello”. Di qui viene il piacere vicario (pp. 282-283).

L’altruismo fa sempre uso di un’altra persona. […] In effetti gli altruisti vogliono comandare perché la spinta da tergo per il soddisfacimento dei propri desideri è ora applicata al soddisfacimento dei desideri dell’altro. E i desideri devono essere soddisfatti in un certo modo, cioè nel modo in cui l’altruista vorrebbe che fossero soddisfatti per sé. […] Cercano di imporre agli altri quello che devono fare per essere felici. […] L’altruista può essere una persona molto piacevole, ma con l’aumentare del suo bisogno di esercitare il controllo può divenire molto spiacevole (p. 284).

Sandler pare poi cercare di condurre Anna Freud a riconoscere un’affinità fra questa manovra difensiva e l’identificazione proiettiva di Klein, volta a controllare l’oggetto. Torna infatti più volte sulla possibilità che la resa altruistica implichi una combinazione di proiezione e identificazione (p. 282; p. 293). Ricorda l’esempio, descritto da Anna Freud nel suo classico, della paziente che aveva rinunciato ad avere una vita propria per lavorare come “governante” in casa altrui. Altri partecipanti rievocano invece le tate, à la Mary Poppins, che vivono un’esistenza per procura tramite il crescere secondo i propri dettami i bambini di altri. Anna Freud rileva, infine, come alcune donne soddisfino i loro desideri ambiziosi per mezzo della mascolinità dell’uomo che affiancano, anziché mediante la tipica invidia (p. 284).

Tuttavia, Anna Freud è ferma nel non volere azzardare ipotesi che vadano a esaminare le fasi pre-verbali di formazione dell’Io. Prima, cioè, che l’Io del bambino emerga dallo stato primigenio di “fluttuante confusione”, come dice Sandler (1985, p. 278), e che si doti di confini abbastanza stabili. Sandler complessifica il pensiero, Anna Freud semplifica (mai in modo semplicistico) rispondendo spesso alle sollecitazioni di Sandler con piccoli esempi di bambini da lei visti di recente, carichi di affetti, di quotidianità, più che di astrazioni teoriche. Sembra dire che gli affetti, più che il pensiero critico-teorico, sono ciò che conta nel lavoro clinico. E in effetti anche a sul piano teorico sappiamo che gli affetti sono la sola “traduzione soggettiva” (che pertiene alla sfera delle “qualità”) a nostra disposizione per conoscere la “quantità di energia pulsionale” (Laplanche, Pontalis, 1967, p. 7). Gli affetti sono quindi i rappresentanti della pulsione nell’Io, e l’orientamento di Anna Freud si chiama, appunto, Psicologia dell’Io.

Una Psicologia dell’Io che però si incaglia, Anna Freud stessa riconosce, nel paradosso della resa altruistica, un paradosso che mette in tensione il binomio egoismoaltruismo (si sentono echi del proprio–estraneo di Gross) e che richiede di risalire alle fonti del processo di formazione dell’Io.

Occorre proprio, dunque, che affronti l’estraneo, quale è per me il pensiero di Jacques Lacan. Lacan che, rivoltosi per analisi all’esponente di spicco della Psicologia dell’Io Rudolph Lowenstein, diventerà un forte oppositore di questa corrente, ponendo subito in tensione la dialettica Altro–Io. Eppure L’Io e i meccanismi di difesa è il primo riferimento psicoanalitico a cui Lacan si appoggi per darsi il giusto slancio e inaugurare la serie di acrobazie logiche che lo hanno reso celebre, a iniziare dallo scritto sullo stadio dello specchio (Lacan, 1949). Va evidenziato come sul tema dei sentimenti altruistici Lacan sia, in questo scritto, in totale consonanza con Anna Freud, quando afferma di non nutrire alcuna fiducia in essi e di vedere solo aggressività nel fare del filantropo, dell’idealista, del pedagogo, del riformatore sociale (p. 103).

Dai sei mesi in avanti, il bambino – ancora un infante senza parole – si specchia ed esclama: C’est moi! Viene così gettato, dice Lacan, il nucleo primordiale dell’Io. Egli riprende la divisione fra Io e me già notata dallo psicologo statunitense George Herbert Mead ed elaborata da William James e Harry Stack Sullivan (Mitchell, Black, 1995, p. 225n), i cui figli avrebbero potuto dire: That’s me! In italiano potremmo invece pensare: Eccomi!

Come Narciso, l’infante guarda l’acqua del fiume e s’innamora dell’immagine dell’essere che vi vede riflesso. Ma, come nel mito, trattasi di amor ferale e di desiderio di abbraccio mortale perché il soggetto non si avvede dell’abisso di vorticose correnti pulsionali che si muove sotto la superficie. Viene da partecipare allo sgomento che coglie Narciso nell’istante in cui crolla l’illusione, la presa di coscienza riflessiva della ricaduta mortifera del suo desiderio.

Soltanto grazie alla totale dismissione delle identificazioni che compongono l’Io – o solamente di quelle narcisistico-alienanti secondo Haydeé Faimberg (2001) – potrà riemergere non un Io che si rispecchia nella propria immaginaria compiutezza, in contemplazione estatica di sé, ma che resta essenzialmente oggetto, inerte e inerme, del desiderio dell’altro, bensì una soggettività pro-vocata e richiamata a vita dal linguaggio. Il linguaggio “percuote” il corpo infantile: questo il verbo usato da Lacan nel Seminario X nel discutere il freudiano A child being beaten (1919), ci ricorda Massimo Recalcati nel presentare Masochismi ordinari di Marisa Fiumanò (2016). Simbolicamente, la parola si fa percussione e colpisce per il suo richiamo ritmico, il suo beat. Batte il tempo al corpo infantile, quasi fosse la pelle di un tamburo, scandendo una cadenza alla crescita e scuotendo così il soggetto dall’incanto alienante dell’essere oggetto passivo del godimento altrui.

Un processo di soggettivazione che presuppone comunque una sottomissione, la quale è però diversa dalla precedente. Si tratta di un masochismo ordinario (Fiumanò, 2016), dal momento che il soggetto si riconosce assoggettato alle leggi che regolano il pulsare dell’inconscio. Io mi rivedo così non più nella mia immagine riflessa ma nel divenire dell’inconscio, simboleggiato dallo scorrere del fiume. Si entra in una dimensione temporale che dischiude le possibilità della crescita, in accordo al ritmo del pendolo che batte gli estremi alienazione–separazione. Ancora una volta, torna Gross con la sua dualità proprioestraneo. Una dualità riferita non più solo, ora, alle qualità del soggetto ma anche alla provenienza del desiderio.

Per radunare i contributi di Anna Freud e di Lacan, si può pensare che la coazione a ripetere, con il suo fort–da bidimensionale, si debba legare, annodare, allo scorrere del tempo della vita per mezzo di linee di sviluppo, altro concetto cardine di Anna Freud. Il tempo congelato dell’alienazione autistica prende pertanto la forma di una spirale, la quale può muovere sia in senso progressivo sia in senso regressivo. La logica onnipotente della pulsione di morte (una logica secondo cui, in fin dei conti, la morte sarebbe controllabile e dunque, in linea di principio, addirittura evitabile!) si tramuta nella logica dell’inesorabile caducità di ogni forma estetica.

Cresciuto (psicoanaliticamente) nel grembo dell’Anna Freud Centre di Londra, Peter Fonagy è noto per avere promosso il concetto di mentalizzazione e per aver elaborato uno specifico protocollo di trattamento per i pazienti borderline. La sua spiegazione dei comportamenti autolesionistici di tali pazienti condensa in sintesi gli esiti di un mancato processo separativo-differenziante-soggettivante, in cui l’Io è lasciato in balia dell’alienazione.

E’ possibile che l’atto autolesionistico implichi la fantasia di estirpare la parte aliena del Sé che, a livello inconscio, essi si rappresentano come una parte del proprio corpo. I soggetti che si automutilano riferiscono una serie di motivazioni consce, tra cui l’autopunizione, la riduzione della tensione, il miglioramento dell’umore e la distrazione da affetti intollerabili […]. Noi facciamo l’ipotesi che, in mancanza di una persona che possa fungere da contenitore per la parte aliena del Sé, un soggetto borderline realizzi uno stato di coesione del Sé mediante l’esternalizzazione di questa parte del Sé in una parte del suo corpo. I tentativi autolesionistici sono gesti compiuti secondo una modalità di equivalenza psichica, laddove una parte del corpo è considerata isomorfica alla parte aliena del Sé e, allo stesso tempo, come un’opportunità di sollievo da affetti intollerabili. I tentativi di automutilazione sono più frequenti quando il paziente si trova in isolamento o in circostanze critiche, in seguito alla perdita di un “altro” che fino a quel momento poteva esaudire il compito di farsi contenitore della parte aliena e persecutoria del Sé (Bateman, Fonagy, 2006, p. 123).

Verrebbe da dire: in assenza di un adulto che lo batte, castrandolo simbolicamente, il soggetto alienato – abbandonato ma non separato – immagina di battersi da sé. Ma, in realtà, si incastra solo nel corpo. La ragione per cui trovo il termine contatto di Gross tanto proficuo è che raggruppa in sé il contatto percussivo (la funzione separativa, di solito attribuita al padre; ma nel suo libro Fiumanò racconta un bel ricordo d’infanzia in cui era la maestra a bacchettare gli alunni con tocchi simbolici soggettivanti, perché calibrati in base alle differenze di ciascuno) e il contatto contenitivo cui fanno riferimento Bateman e Fonagy (la funzione coesiva del Sé, di solito attribuita alla madre). Entriamo così nelle acque territoriali di Donald Winnicott e di Wilfred Bion.

Donald Winnicott e Wilfred Bion

 

Nonostante Mitchell e Black ritengano che l’influenza di Lacan sugli analisti anglosassoni sia stata minima (1995, p. 221), vi è almeno un analista inglese che ha intrattenuto con lui un rapporto, anche epistolare, di rilievo: Donald Winnicott (vedi Rodman, 2003).

Sempre interessato allo sviluppo affettivo primario, Winnicott segue Lacan nel non scambiare l’immagine illusoria dell’Io per una piena e compiuta soggettività. E come Lacan, egli vuole risalire alle sorgenti di questa soggettività; prova perciò a gettare lo sguardo oltre l’illusione dello specchio lacaniano, ma ciò che i suoi occhi incontrano non sono le turbolente e mortifere correnti del vortice pulsionale, bensì qualcosa che può essere ancora più angoscioso, il volto e gli occhi della madre.

Come suo solito, Winnicott inizia allora a cercare di mettere in parole questa visione, tentando di non “urtare la delicatezza di ciò che è preverbale, non verbalizzato, non verbalizzabile, se non in forma poetica forse” (1967, p. 27). Il pensiero di Winnicott muove dall’indifferenziato: prima che il bambino acquisisca il “mio”. Me e non-me, a questo punto, non fanno differenza. Il riff lacaniano “il desiderio dell’altro” si esprime qui in tutta la sua ambiguità. Non si capisce chi possieda il desiderio. “Gradualmente ha luogo la separazione del non-me dal me, e il ritmo si differenzia in accordo all’infante e in accordo all’ambiente” (ibid., p. 26).

Se da una parte, dunque, questo processo varia a seconda del corredo pulsionale dell’infante – cosa che Winnicott non rinnegherà mai! – dall’altra esso dipende da alcune funzioni fornite, o meno, dall’ambiente. Un ambiente che così partecipa a sostenere e a gestire il processo di maturazione, che per Winnicott coinvolge contemporaneamente sia il contatto propriocettivo fra il corpo e la psiche, sia il contatto relazionale con l’estraneo. I processi di soggettivazione e oggettivazione – l’instaurarsi del principio di realtà – per lui avvengono di pari passo. Ma se Freud vedeva avvenire il passaggio dal principio di piacere a quello di realtà in modo unilaterale, per Winnicott si tratta del convergere di due linee.

Affinché venga percepito come reale, infatti, un oggetto estraneo si deve presentare all’infante in un modo che faccia sì che la sua “legittima esperienza di onnipotenza non ne sia violata” (ibid., p. 27). Charles Rycroft, uno dei più acuti allievi e conoscitori di Winnicott (Cassullo, 2015), osserva al riguardo:

Agli occhi di Winnicott, […] una vita sana e creativa dipende dallo stabilirsi di un terza sfera, “transizionale” o “intermediaria”, nella quale soggettivo e oggettivo vengono fusi (o rimangono indifferenziati). In tale area transizionale gli oggetti sono sentiti fare parte sia della realtà interna che di quella esterna, sono sentiti avere sia “seitudine” (selfhood) che “alterità” (otherness); e le attività soddisfano sia i desideri (wishfulfilling) che i bisogni adattativi. I giochi, la cultura, le religioni appartengono a questa sfera transizionale, che si sviluppa solo nella misura in cui la madre risponde con sufficiente sensibilità e prontezza alla tendenza dell’infante ad allucinare gli oggetti che desidera, di farsi l’idea illusoria di avere creato lui, soggettivamente, gli oggetti che esistono al di là di lui, oggettivamente. Nella misura in cui questa illusione si ricrea a sufficienza, e si evita una disillusione prematura, l’individuo si sentirà a casa nel mondo e intratterrà con esso un rapporto creativo (Rycroft, 1972, p. 145).

Occorre tornare alle Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico di Freud (1911), uno scritto fondante sia per la metapsicologia che per la tecnica psicoanalitica. In esso Freud si interroga su che cosa possa sospingere l’individuo “fuori dalla vita reale” e “alienarlo dalla realtà”, facendogli perdere quella che Janet (prima di Lacan) chiamava “la fonction du réel (p. 453). La risposta che si dà Freud è che la “funzione del reale” non è presente nella mente dell’infante sin dall’inizio, ma è il risultato di un processo di sviluppo. Per non cadere nella psicosi, il bambino dovrà abbandonare la spontanea tendenza della mente a fare ricorso alla exit-strategy della soddisfazione allucinatoria dei bisogni, attraverso un pio pensare-desiderare, un wishful thinking (p 454). Come l’anello del potere di Tolkien, infatti, il ricorso alla soddisfazione allucinatoria proietta l’individuo in una dimensione autistica in quanto induce la “rinuncia alla dipendenza dagli oggetti reali” (p. 457). Ma l’abbandono del ricorso alla gratificazione allucinatoria può avvenire unicamente se il soggetto è disponibile a fare esperienza della “mancanza dell’atteso soddisfacimento, la disillusione” (p. 454).

In sintesi, per Freud l’esperienza di disillusione rispetto all’onnipotenza infantile è necessaria al fine di acquisire il senso della realtà e di raggiungere la sanità (l’integrità) mentale. Ma Freud non ha mai parlato dell’evenienza di una disillusione precoce che mortifica la curiosità, l’esplorazione, la creatività, il desiderio nei confronti della realtà, come fanno Winnicott e Rycroft, e non ha neppure mai sondato la possibilità che la partecipazione del soggetto alla foggia della realtà oggettiva, con la propria creatività mentale, sia necessaria ai fini del processo di soggettivazione-oggettivazione. Per Winnicott e per il gruppo che con lui ha dato vita a queste idee (Milner, Rycroft, Khan, Little, ecc), all’opposto, un’accettabile esperienza di disillusione deve essere paradossalmente preceduta da una sufficiente esperienza di illusione che permetta di preservare il sentimento di essere parte attiva (non certo onnipotente, ma neanche impotente) nella creazione del mondo.

Ne consegue che per loro – ma si veda Ian Suttie come capostipite di questa prospettiva e link fra Ferenczi e il suddetto gruppo di analisti britannici (Cassullo, 2010) – l’infante non si trova mai in uno stato di quiete paradisiaca, edonistica, oggetto-passivo in mano all’ambiente, dal momento che nell’unità indifferenziata originaria non si può distinguere l’oggetto dal soggetto, il me dal non-me, “chi fa” da “chi è fatto”. Ciò che invece si può distinguere è una differente qualità dell’esperienza relazionale in cui l’infante è immerso. Prendendo per esempio le due scene prototipo del “gioco del rocchetto” e del “bambino viene picchiato”, Winnicott avrebbe potuto sottolineare la differenza di qualità affettiva fra il gioco del nipotino di Freud, che gli permette di fare i conti con l’inevitabile scomparsa dell’onnipotenza infantile, e l’assistere impotenti, in modo passivo, a una scena attivante come quella di un bambino che subisce una violenza.

Che cosa vede dunque l’infante, si chiede Winnicott, quando osserva lo specchio-madre? Vede se stesso. Non l’Io meccanico-idealizzato che ammira nello specchio-oggetto, ma se stesso nel pieno delle proprie capacità-potenzialità creative, affettive, ideative. Perché il modo in cui lui è e il modo in cui agisce influenza il modo in cui la madre lo guarda e risponde. E lui, a sua volta, risponde al modo in cui la madre è, lo guarda e agisce (Winnicott, 1967, p. 27). Tale proto-dialogo, fatto azioni (fisico) e di sguardi (psicologico), intesse lo spazio in cui avvengono le transazioni intersoggettive e allo stesso tempo separa – ma in modo permeabile, percorribile in entrambe le direzioni, ovverosia transizionale – la realtà soggettiva e la realtà oggettiva. Succede, però, che l’infante possa guardare nello specchio-madre e non vedere se stesso in rapporto con la madre ma solo il volto della madre. Un volto che, come detto circa Klein e l’assenza di presenza mentale materna, momentaneamente lo esclude perché preso dai propri pensieri. Un volto che, di conseguenza, non riflette l’immagine di una madre in rapporto con l’estraneo (l’infante) ma di una madre intenta ad occuparsi delle proprie cose. Questi momenti di de-sintonizzazione e di non-comunicazione – che a rigore costituiscono un diritto inalienabile non solo dell’infante ma anche della madre (Winnicott, 1963) – non producono area transizionale; possono invece produrre fenomeni di scissione fra una parte di sé che va incontro all’estraneo (falso sé) e una parte di sé che si ritira nel proprio (vero sé). In talune circostanze, in cui la madre ha molto bisogno di occuparsi di sé (in occasione di lutti, patologie, ecc), questi momenti di non-comunicazione possono essere eccessivi, quelli di interscambio-illusione-gioco rari, e l’area transizionale non formarsi a sufficienza. Circa gli esiti patologici di una scissione impermeabile e rigida di questo tipo, Winnicott si riallaccia all’identificazione con l’aggressore di Ferenczi (ma per dire che in una certa misura è un fenomeno normale o almeno inevitabile) e all’alienazione dell’Io di Lacan (ma per dire che la questione non è, per forza di cose, così severa in ogni caso).

Non credo di non essere troppo soggettivo e azzardato se dico che Winnicott rappresenta oggi uno dei maggiori punti di riferimento in psicoanalisi e in psicoterapia. I dati di lettura e citazione del Psychoanalytic Electronic Archive lo testimoniano. Arrivati a una punta della psicoanalisi odierna, Winnicott, vorrei ora metterlo in rapporto con un’altra punta, costituita da Wilfred Bion.

Nell’introdurre Bion, non so più bene che cosa fare del vascello che ci ha tradotti sin qui e che si è via via appesantito di molte teorie e concetti. Mi viene in mente una sorta di affondamento della nave. Penso allora alla risposta data da Bion, nei suoi seminari di Roma, a una domanda complessa di Claudio Neri (Neri, 2016, p. 26). Nella risposta Bion ha ricordato l’affondamento del Titanic: per quanto le teorie siano capienti, ingegnose, apparentemente sicure, un semplice fatto – un imprevisto inatteso e non programmato – può farle colare a picco. Nell’ottica di Bion, l’analisi sarebbe piuttosto una zattera che si muove con difficoltà fra i tumulti di un mare sconosciuto.

La zattera in questione fa pensare a quell’insieme di “segmenti concettuali” preconsci con cui Sandler (1983) rappresentava il modo in cui si combinano le diverse teorie nella mente dell’analista al lavoro. Segmenti concettuali, però, tenuti assieme da corde, pena la disgregazione della zattera e il suo divenire un insieme di tronchi sparsi. Ritorniamo così all’enfasi posta da Civitarese (2016) sul filo che lega il rocchetto alla mano del nipotino di Freud. Per il primo Bion, quello degli attacchi ai legami, pulsione di morte e masochismo primario farebbero appunto questo: anziché filare pensiero, essi tagliano le corde della zattera che permette di pensare.

Ma che fine fa la pulsione di morte nell’evolvere in senso post-kleiniano del pensiero di Bion? Grotstein (2009, p. 175) sostiene che, dopo una sorta di personificazione avvenuta con Klein (esiste un agente, una potente forza demoniaca o quanto meno un diavoletto dispettoso che deliberatamente recide le corde), per il Bion post-klein la pulsione di morte torna quel tropismo impersonale che era in origine per Freud ma che si può personificare legandosi a qualche personaggio del mondo interno del soggetto.

Per Bion “L’invidia non ha odore” (Grotstein, 2009, p. 175). Similmente, la pulsione di morte – nel suo stato puro, non legato cioè a istanze psichiche particolari o a specifici comportamenti – si potrebbe accomunare alla “materia oscura”. Materia oscura che, pur se sembra costituire la maggior parte della materia di cui è composto l’universo, non è direttamente osservabile giacché non emette radiazioni; e difatti è stata identificata solo grazie alle anomalie e alle deformazioni che produce nel campo di gravitazionale. Questa è una frontiera della scienza dello spazio infinito. Un’altra frontiera scientifica che oggi ci impegna è quella dello studio della doppia elica, il DNA, il quale è composto in massima parte da sequenze genetiche non codificanti, senza alcuna apparente funzione; o meglio, il cui ruolo ci è ancora sconosciuto. Ciò che voglio dire è che Bion ci orienta, con rigore di pensiero, verso l’orizzonte della conoscenza, là dove si disgiunge ciò che potremo raggiungere in futuro e ciò che non sarà mai raggiungibile: l’orizzonte è infatti immobile. E’ quello il luogo in cui Freud aveva collocato le pulsioni, compresa quella di morte.

Secondo Grotstein (ibid.) è plausibile che Bion vedesse nella pulsione di morte un versante di O: il suo semicerchio destruens, l’arco calante. Questa concezione sarebbe in linea con il pensiero di Freud in Al di là del principio di piacere, a cui quindi saremmo ricondotti al termine di questo lungo excursus. Nell’esporre le sue speculazioni, Freud evoca Schopenhauer – con la sua virata filosofica a Oriente – e il mito platonico dell’androgino. Un mito che, Freud ammette in nota, richiama un ben più antico mito indiano, riportato in una delle prime Upanisad (Freud, 1920, p. 243n).

A questo punto, si è a rischio di una vertiginosa caduta nel caos mistico, rischio da cui a dire il vero non erano neppure esenti Gustav Theodor Fechner e la sua Psicofisica, a cui Freud si appoggiò a più riprese per stabilire come principio primo ordinatore della mente psicodinamica il principio di costanza, il principio di equilibrio fra le forze. Un caos mistico costeggiato da Bion, dal Freud di Al di là del principio di piacere, come pure dal Winnicott di “Comunicare e non Comunicare” (1963), che evoca la musica delle sfere per descrivere il cuore del Sé, quel fondo dell’anima che rimane per sempre estraneo all’Io e al principio di realtà, e mai propriamente relazionabile. Un talassico luogo delle origini: un oceano silente che non comunica, neanche in maniera non-verbale, bensì respira in modo assolutamente personale, proprio come il suono che ciascuno di noi emette per il solo fatto di vivere (Winnicott, 1963).

Torniamo circolarmente al principio di questo lavoro e al suono del corpo materno: un rumore di fondo universale che non può essere sentito dal feto perché è sempre stato lì, lo ha accompagnato fin dall’inizio. Forse è l’eco di quell’antico brusio che il neonato ricerca tramite il contatto postnatale con quello stesso corpo; e che, a tratti e in determinate circostanze, riusciamo a sentire in lontananza come un rollandiano “sentimento oceanico” (Gaburri, Ambrosiano, 2003). Tuttavia, il più spesso ne facciamo esperienza in quanto assenza e angoscia di trovarci soli nel mezzo del mare in tempesta.

Freud, Bion e Winnicott hanno saputo sottrarsi al rischio di vertigini mistiche tramite il legarsi stretti a una cima, quella della vitalità del semplice e quotidiana accoppiamento dovuto alla pratica della psicoanalisi. L’ipotesi di Freud a proposito della pulsione di morte è difatti che “il processo vitale dell’individuo per ragioni interne [tenda] a livellare le tensioni chimiche, e cioè [tenda] alla morte, mentre l’unione con la sostanza vivente di un individuo diverso accresce queste tensioni, introducendo per così dire nuove differenze vitali” (Freud, 1920, p. 241).

L’O di Bion, alternanza di spinte di vita e spinte di morte, diviene così il perpetuum mobile, la circolarità antica del “ritmo della vita e della morte” (Ferenczi, 1920-1932, p. 236) il cui controllo è fuori portata perfino per Ernst, il nipote che Freud osserva mentre è preso nel suo gioco solipsistico; come pure è fuori portata per nonno Sigmund la morte della figlia Sophie, madre del piccolo Ernst.

Se dal punto di vista dello sviluppo del pensiero se ne può ricavare che unicamente attraverso l’accoppiamento con l’estraneo è possibile uscire dalla ripetitività autistica di un pensiero che, per quanto elaborato, è concluso in se stesso e quindi destinato soltanto a consumarsi, dal punto di vista della pratica psicoanalitica vengono in mente i due momenti sorgivi nei quali il paziente è solo con i propri pensieri o in comunicazione con l’analista, l’estraneo. Lo stesso procedimento psicoanalitico potrebbe essere descritto, insieme a Gross (1920), come una continua, prolungata tessitura di questi due frangenti: uno di contatto, carico di dialogo e di togetherness, uno di distacco, all’insegna della solitudine e del silenzio.

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